Dieci anni fa, il 5 gennaio 2015, Napoli si fermò. L’improvvisa scomparsa di Pino Daniele spezzò il cuore della città, del Sud, di tutta l’Italia. Per due giorni, l’aria fu impregnata di dolore e incredulità, mentre la sua musica, i suoi testi, le sue melodie risuonavano ovunque: dai balconi, dalle autoradio, nelle piazze. La commozione popolare si riversò nelle strade, culminando in un addio collettivo straordinario, il funerale in Piazza del Plebiscito, dove migliaia di persone si strinsero per dirgli addio.

In quella cornice emotiva unica, io e Cecilia Donadio ci ritrovammo nella saletta di montaggio, immersi in due giorni di lavoro frenetico e intenso. La missione era chiara: raccontare Pino Daniele, la sua eredità, il vuoto che lasciava, in 30 minuti di televisione. Ma non si trattava solo di un compito professionale; era un viaggio nel cuore della città, nelle radici della nostra cultura, nelle nostre vite personali, perché tutti noi avevamo un pezzo della nostra storia legato alla sua musica.

La saletta diventò un microcosmo di emozioni. Ogni immagine, ogni parola, ogni nota veniva scelta con cura maniacale, quasi fosse un atto d’amore. Rivedere i vecchi filmati di Pino che suonava, che parlava, che rideva, ci stringeva lo stomaco e ci riempiva gli occhi di lacrime. Ma sapevamo che dovevamo trasformare quel nodo in gola in un racconto che parlasse a tutti, che rispettasse la sua grandezza e il dolore della sua gente.

Il documentario si chiudeva con le facce commosse della gente a Piazza del Plebiscito durante il suo funerale. Quel momento, fissato nel montaggio, ci ha trovati in silenzio: sapevamo che racchiudeva tutto. Quando finalmente il lavoro era completo, abbiamo riguardato il servizio dall’inizio alla fine. Noi, che dovevamo essere i narratori, eravamo anche spettatori del nostro stesso dolore.

Era come se Napoli avesse perso un fratello, ma, nello stesso tempo, si fosse riscoperta comunità. E mentre il nostro servizio andava in onda, sapevo che avevamo fatto la nostra parte per raccontare quel momento irripetibile. Oggi, a dieci anni di distanza, quel ricordo è ancora vivido: due giorni di lavoro forsennato, di emozioni condivise, di professionalità e cuore. Un piccolo omaggio a un gigante, che resterà sempre parte della nostra anima.

C’è chi, per sembrare più importante o per affermare un’autorità che non ha, si aggrappa a un intercalare come “ciccio”. È il tipico vezzo di chi finge di non ricordare il tuo nome per darsi un’aria distratta e dominante, sottolineando che non meriti la fatica della memoria. Un clichè di alcuni registidel passato che chiamano tutti “rospo” o “spa” o altre cazzate, per creare quell’aura di familiarità fittizia, in realtà studiata per mantenere le distanze. Insomma, un esercizio di prepotenza mascherata da ironia.

L’effetto? Zero carisma, tanto cringe.

La cosa più spassosa, quasi teneramente fantozziana, è che chi si atteggia a “boss del mondo con intercalare” non si sogna mai di usare “ciccio” o simili con qualcuno che riconosce come gerarchicamente superiore. Prova a chiamare “ciccio” il tuo capo o un cliente importante.

E allora, dato che il loro intercalare è una malattia sociale, mi riservo il diritto di rispondere con una sindrome tutta mia: quella di Tourette, adottando un paio di termini molto napoletani: “chiappariello” o “friariello” alla bisogna.

C’è un’amarezza profonda, un dolore che affonda le radici nelle tue ingiustizie, nei tuoi criteri distorti. È una tristezza antica, che risale a politiche marce, ad abusi di potere, a un sistema corrotto di familismi e clientele. Ho lottato con tutte le mie forze per trovare un posto dentro di te, per comprendere e adeguarmi al tuo mondo; ma è stato come combattere contro i mulini a vento. Ho cercato di sopportare, di adattarmi ai tuoi schemi, eppure più mi sforzavo, più avvertivo un peso insostenibile, una desolazione che mi scavava dentro. Non è il mio mondo, eppure l’hai invaso, l’hai asfaltato, più e più volte, come una macchina inarrestabile. Ho continuato a credere di non essere io l’anomalia, l’errore; e anche se molte cose sono già cambiate, tu rimani come un’ombra pesante che, purtroppo, dovrò sopportare per il resto dei miei giorni. Appartieni al mio tempo, un’eredità scomoda di cui non posso liberarmi, anche se il mondo corre verso nuovi pericoli e minacce, figlie, in fondo, proprio di ciò che tu rappresenti.