di FXiovino

C’è qualcosa di magico nei live. Non solo nell’energia che si crea tra musicisti, ma nei suoni non filtrati, negli errori piccoli che diventano carattere, nei respiri che restano impressi tra un colpo di charleston e un accordo aperto.
E così, mentre frugavo nel mio personale archivio di hard disk pieni come valigie prima di una tournée, è saltata fuori una seconda registrazione live di Elisabetta Serio, datata 2019.

Stesso periodo, stessa atmosfera, stessa bellezza. Ma con un piccolo grande dettaglio: all’epoca l’avevo trattata con Reason e — per farla breve — non rendeva giustizia alla musica. Ora, grazie a Logic e a un mix meno affannato e più attento, ho potuto risentirla come merita.

Il suono vivo del live

Questa registrazione non è perfetta. E meno male.
È viva, è vera, è piena di quello che solo un’esecuzione dal vivo può contenere: la vicinanza dei microfoni, qualche rientro tra strumenti, un’interazione non detta ma chiarissima tra i musicisti.

E al centro c’è lei, Elisabetta Serio, che con il suo tocco riesce a tenere tutto insieme come se il pianoforte fosse una conversazione con chi ascolta.
Ho usato un po’ di plugin per liberare lo spazio tra i suoni, per farli dialogare meglio. Ho tolto più che aggiunto.
E alla fine, ho avuto quella sensazione rara: il brano non solo funziona, ma respira.

Pareri che contano

In mezzo a questo processo di “ascolto rinnovato”, ho avuto il piacere di far sentire il pezzo anche a Cecilia Donadio, che con la sua consueta delicatezza ha saputo cogliere l’anima del brano in pochi secondi.
Quando un orecchio attento ti conferma ciò che sentivi solo di pancia, capisci che hai fatto bene a riprendere in mano quella traccia.

Non è nostalgia, è necessità

Riaprire vecchie registrazioni può sembrare un gesto nostalgico. Ma a volte è proprio una necessità.
La musica — quella vera — non invecchia. Semplicemente aspetta il momento giusto per mostrarsi nella luce migliore.

E ora, finalmente, questa seconda traccia è pronta a farsi ascoltare.

È online, sul mio canale.
Live, sì. Con tutti i suoi piccoli limiti.
Ma dentro ci sono momenti veri. E quelli non passano mai di moda.

Non butto via niente.
Zero.
Nemmeno quel file audio intitolato “mix_definitivo_finaleULTIMO_VERO.wav” (spoiler: era il primo tentativo).

Faccio questo mestiere da così tanto tempo che ormai quando apro un hard disk da 300 mega sento odore di pizza al taglio e modem 56k. Ho roba che manco l’Internet Archive. Anni di registrazioni, prove, demo, suoni, silenzi, sbuffi, loop infiniti e file dal nome incomprensibile tipo “finalissima_mixVERArevision3_bisFINALE.mov”.

Qualche giorno fa, mentre rovistavo tra questi cimeli digitali, mi è saltato fuori un live del 3 giugno 2019. Una roba che all’epoca avevo postprodotto con Reason. Ma il risultato… meh. Sai quando fai una pasta con amore ma ti dimentichi il sale? Ecco. Così, spinto da quel misto di malinconia e masochismo creativo, ho tirato tutto su in Logic — plugin vari, qualche magia per isolare suoni troppo amichevoli tra loro (tipo la batteria che voleva abbracciare il piano) — ed è venuto fuori qualcosa che finalmente mi suona bene.

Elisabetta Serio, non solo Pino Daniele (e già sarebbe tanto)

In quel live c’è lei: Elisabetta Serio. Ora, lo so che molti la ricordano solo come la pianista di Pino Daniele. Ed è vero, ma è un po’ come dire che la Nutella è “quella crema che si spalma sul pane”. Elisabetta è una musicista fine, potente, con un tocco che sembra conoscere i tuoi pensieri prima ancora che li pensi.

Nel 2019 era venuta a suonare e a parlare di Sedici, un disco bellissimo, intimo e sofisticato. Qualche mese fa ci siamo rivisti, a tavola ovviamente — perché certi rapporti si rinnovano solo davanti a un piatto serio. Abbiamo parlato di musica, di vita, e mi ha fatto il regalo più bello: ha ascoltato alcune mie composizioni.

Quando ha sentito “Je song o popolo”, ha alzato lo sguardo, aveva gli occhi lucidi. Mi ha detto che era commossa. E lì ho pensato: o è una grandissima attrice (spoiler: non lo è), oppure davvero la musica, se è onesta, arriva.

Una piccola cosa da nulla, che però mi somiglia

La registrazione non è perfetta, eh. È acustica, live, con microfoni ovunque, tipo cena di Natale coi parenti: tutti parlano, tutti vogliono essere ascoltati. Ma ora ha un suono più pulito, più vero. E dentro ci sento quelle giornate di creatività quasi ostinata, quelle in cui il mondo può anche esplodere, ma tu devi finire quel mix.

La musica, per me, è sempre stata così: non lineare, non perfetta, ma sempre piena. E in quella pienezza ogni tanto trovo anche me stesso.

Se ti va, passa dal mio canale YouTube. Non troverai effetti speciali, ma storie vere che si muovono tra una nota sbagliata e un’emozione giusta.

A presto,
Felice Iovino (FXiovino)
collezionista di hard disk e momenti irripetibili

Voci nel Vento

«Voci nel Vento»: palloncini azzurri e messaggi nel cielo per l’autismo La commovente iniziativa vede famiglie e bambini scrivere messaggi di speranza e affidarli a palloncini azzurri, liberati insieme nel cielo. Un gesto d’amore e condivisione per dare voce all’autismo in vista della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo (2 aprile). Napoli, 2 aprile 2025 – In questi giorni, in varie città italiane, famiglie e bambini si sono riuniti per dare vita all’iniziativa «Voci nel Vento». La scena, semplice e carica di emozione, vede genitori e figli scrivere su piccoli fogli messaggi di speranza dedicati all’autismo. Questi bigliettini vengono poi legati a palloncini azzurri – il colore simbolo dell’autismo – e, a un segnale condiviso, i palloncini vengono liberati, innalzandosi insieme nel cielo terso. I messaggi, affidati al vento, volano così sopra le città come voci che finalmente si fanno sentire. La potenza di questo gesto simbolico è immediatamente percepibile da chi vi assiste. Ogni palloncino che vola via porta con sé un pensiero, una “voce” silenziosa che ora può parlare al mondo. L’obiettivo è rendere visibile l’invisibile e dare voce all’autismo attraverso l’amore e la condivisione. Pensieri che solitamente restano nel privato – nel silenzio di tante famiglie che vivono la quotidianità dell’autismo – diventano improvvisamente visibili a tutti, librandosi sopra le nostre teste. I messaggi nel cielo simboleggiano le tante voci delle persone nello spettro autistico e dei loro cari, voci che troppo spesso rimangono inascoltate. In questo modo ciò che prima era invisibile agli occhi della comunità viene reso tangibile e impossibile da ignorare. L’iniziativa «Voci nel Vento» acquista un significato ancora più profondo in vista del 2 aprile, Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo. Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2007​ AUTISMO.IT , questa ricorrenza annuale richiama l’attenzione sui diritti e i bisogni delle persone con autismo in tutto il mondo. Alla vigilia di questa giornata, il volo simultaneo dei palloncini azzurri in tante città rappresenta un messaggio condiviso di consapevolezza e speranza. Il colore azzurro che tradizionalmente illumina monumenti e piazze il 2 aprile – scelto come simbolo internazionale dell’autismo – riecheggia nei palloncini di «Voci nel Vento», unendo idealmente le comunità locali a quella globale in un’unica voce per l’autismo. La partecipazione a questa campagna di sensibilizzazione è aperta a tutti. I promotori invitano cittadini, istituzioni, scuole e associazioni ad unirsi al volo simbolico di Voci nel Vento e a farsi portavoce del messaggio di inclusione che esso rappresenta. Ognuno può dare il proprio contributo per accrescere la consapevolezza sull’autismo, in molti modi diversi. Ad esempio, in occasione del 2 aprile ciascuno può: Partecipare alle iniziative organizzate sul territorio in occasione della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo, prendendo parte attiva agli eventi e ai flash mob dedicati. Condividere sui social network e nei propri ambienti i messaggi di Voci nel Vento, diffondendo la consapevolezza e testimoniando il proprio supporto alle famiglie e alle persone autistiche. Sensibilizzare la comunità parlando di autismo con amici, colleghi e familiari, per promuovere comprensione, rispetto e inclusione verso le persone nello spettro autistico. Per le famiglie coinvolte, vedere i propri messaggi alzarsi in volo significa sapere di non essere sole. La liberazione simultanea di decine di palloncini azzurri dimostra che la società può e vuole ascoltare: il loro gesto mostra a tutti noi che ciascuna di quelle voci conta. Il 2 aprile, quelle voci nel vento ci ricordano che comprensione e solidarietà iniziano da gesti semplici ma condivisi. Insieme, rendiamo visibile l’invisibile: un palloncino azzurro alla volta, diamo voce a chi non può esprimerla e costruiamo una comunità più consapevole, inclusiva e unita.

Dieci anni fa, il 5 gennaio 2015, Napoli si fermò. L’improvvisa scomparsa di Pino Daniele spezzò il cuore della città, del Sud, di tutta l’Italia. Per due giorni, l’aria fu impregnata di dolore e incredulità, mentre la sua musica, i suoi testi, le sue melodie risuonavano ovunque: dai balconi, dalle autoradio, nelle piazze. La commozione popolare si riversò nelle strade, culminando in un addio collettivo straordinario, il funerale in Piazza del Plebiscito, dove migliaia di persone si strinsero per dirgli addio.

In quella cornice emotiva unica, io e Cecilia Donadio ci ritrovammo nella saletta di montaggio, immersi in due giorni di lavoro frenetico e intenso. La missione era chiara: raccontare Pino Daniele, la sua eredità, il vuoto che lasciava, in 30 minuti di televisione. Ma non si trattava solo di un compito professionale; era un viaggio nel cuore della città, nelle radici della nostra cultura, nelle nostre vite personali, perché tutti noi avevamo un pezzo della nostra storia legato alla sua musica.

La saletta diventò un microcosmo di emozioni. Ogni immagine, ogni parola, ogni nota veniva scelta con cura maniacale, quasi fosse un atto d’amore. Rivedere i vecchi filmati di Pino che suonava, che parlava, che rideva, ci stringeva lo stomaco e ci riempiva gli occhi di lacrime. Ma sapevamo che dovevamo trasformare quel nodo in gola in un racconto che parlasse a tutti, che rispettasse la sua grandezza e il dolore della sua gente.

Il documentario si chiudeva con le facce commosse della gente a Piazza del Plebiscito durante il suo funerale. Quel momento, fissato nel montaggio, ci ha trovati in silenzio: sapevamo che racchiudeva tutto. Quando finalmente il lavoro era completo, abbiamo riguardato il servizio dall’inizio alla fine. Noi, che dovevamo essere i narratori, eravamo anche spettatori del nostro stesso dolore.

Era come se Napoli avesse perso un fratello, ma, nello stesso tempo, si fosse riscoperta comunità. E mentre il nostro servizio andava in onda, sapevo che avevamo fatto la nostra parte per raccontare quel momento irripetibile. Oggi, a dieci anni di distanza, quel ricordo è ancora vivido: due giorni di lavoro forsennato, di emozioni condivise, di professionalità e cuore. Un piccolo omaggio a un gigante, che resterà sempre parte della nostra anima.

C’è chi, per sembrare più importante o per affermare un’autorità che non ha, si aggrappa a un intercalare come “ciccio”. È il tipico vezzo di chi finge di non ricordare il tuo nome per darsi un’aria distratta e dominante, sottolineando che non meriti la fatica della memoria. Un clichè di alcuni registidel passato che chiamano tutti “rospo” o “spa” o altre cazzate, per creare quell’aura di familiarità fittizia, in realtà studiata per mantenere le distanze. Insomma, un esercizio di prepotenza mascherata da ironia.

L’effetto? Zero carisma, tanto cringe.

La cosa più spassosa, quasi teneramente fantozziana, è che chi si atteggia a “boss del mondo con intercalare” non si sogna mai di usare “ciccio” o simili con qualcuno che riconosce come gerarchicamente superiore. Prova a chiamare “ciccio” il tuo capo o un cliente importante.

E allora, dato che il loro intercalare è una malattia sociale, mi riservo il diritto di rispondere con una sindrome tutta mia: quella di Tourette, adottando un paio di termini molto napoletani: “chiappariello” o “friariello” alla bisogna.