Oggi il Parlamento ha approvato la riforma della giustizia.
Un giorno che passerà alla storia non per il coraggio delle idee, ma per la sfacciataggine di chi le ha scritte.
Solo in un Paese come il nostro — dove un partito fondato da un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa può ancora decidere le regole del gioco — poteva accadere che a rimettere mano alla giustizia fossero proprio quelli che da essa si sono sempre difesi, mai serviti.
Un capolavoro di incoerenza nazionale, una sceneggiata che puzza di impunità.
La chiamano riforma, ma sembra piuttosto un manuale di autodifesa per potenti, amici e compari.
Aboliscono l’abuso d’ufficio — perché evidentemente non basta più sentirsi intoccabili, ora bisogna esserlo per legge.
Riducono l’uso delle intercettazioni — così nessuno potrà più sentire le voci che disturbano.
Prevedono addirittura un avviso prima delle perquisizioni — come se la legalità dovesse bussare educatamente prima di entrare in casa del sospettato.
È un progetto preciso, e non è solo giuridico: è politico, culturale, morale.
Serve a liberarsi dei controlli, a indebolire chi indaga, a togliere potere a chi può ancora dire “no”.
La democrazia non muore con un colpo di Stato; muore così, a colpi di commi e articoli scritti da chi ha paura della verità.
È come avere il ladro alla cassa e la volpe nel pollaio.
Stanno lì, sorridenti, a smontare pezzo dopo pezzo tutto ciò che poteva fermarli.
E noi, un popolo stanco e distratto, abituato ormai a tutto, assistiamo in silenzio come se nulla fosse.
Ci indigniamo per un giorno, poi cambiamo canale.
È così che si spengono i Paesi: non per mancanza di leggi, ma per mancanza di dignità collettiva.
Bisogna reagire. Ora.
Non con gli slogan, ma con la Costituzione in mano.
L’articolo 75 ci dà un’arma civile, limpida, democratica: il referendum abrogativo.
È tempo di usarla.
Perché questa non è solo una legge sbagliata, è un segnale pericoloso: la resa dello Stato ai suoi peggiori istinti.
Serve una campagna referendaria, serve una mobilitazione vera, fatta di cittadini, studenti, magistrati, giornalisti, chiunque creda ancora che la giustizia non sia un privilegio ma un diritto.
Non possiamo lasciare il futuro nelle mani di chi la legalità la considera un fastidio.
Oggi ci cadono le braccia, è vero.
Ma domani dobbiamo alzarle — per firmare, per votare, per cambiare.
Perché se non lo facciamo noi, la prossima riforma non toccherà solo la giustizia: toccherà la libertà di tutti.

