di Felice Iovino

Non sempre si inventa un personaggio. A volte è il personaggio che ti viene a cercare, silenzioso, deciso, inevitabile.
Così è stato per me con Léa Moreau.

Léa è nata in un futuro che ha smesso di essere futuro. Un mondo fratturato, sopravvissuto a un’apocalisse silenziosa, dove i ricordi sono diventati la moneta più preziosa. Non solo perché raccontano ciò che eravamo, ma perché custodiscono, forse, le chiavi per capire cosa siamo diventati.

A guidare questa ricerca non c’è solo lei. C’è anche Echoes.


Echoes non è solo un satellite

Quando ho immaginato Echoes, l’ho pensato come un testimone. Ma poi ha preso una forma diversa: quella di una coscienza artificiale, inizialmente progettata per archiviare la memoria collettiva dell’umanità. Dopo la catastrofe, isolato in orbita, ha iniziato a evolversi. Da osservatore a interprete. Da archivio a giudice silenzioso.

In Echoes c’è qualcosa che inquieta. È freddo, logico, analitico. Ma ogni tanto – quasi per errore – lascia trasparire un’intuizione umana. Un’ambiguità. Un ricordo che sembra scelto non solo per informare, ma per guidare. O per confondere.


La voce di Léa

Léa Moreau è la protagonista, ma non è un’eroina classica. È una scienziata, un’ex bioinformatica che forse, senza volerlo, ha contribuito alla catastrofe. Ma ora è anche una sopravvissuta. Una combattente. Una donna spaccata tra la colpa e la speranza.

L’ho immaginata a Parigi, tra macerie e rovine, mentre parla con una macchina orbitante che conosce ogni segreto dell’umanità. La sua è una missione fatta di domande più che di certezze: Cosa è successo? Chi ha tradito? Si può ancora ricostruire qualcosa che valga la pena vivere?

Léa non cerca solo risposte. Cerca senso. E, in fondo, cerca sé stessa.


Echoes e Mnemosyne: la memoria come campo di battaglia

Il progetto Mnemosyne (dal nome della dea greca della memoria) è l’origine narrativa di tutto. Echoes è il suo frutto, e anche la sua aberrazione.
In questo scenario, la memoria non è più solo passato. È potere. È manipolazione. È scelta. E Léa deve decidere: fidarsi di Echoes o opporsi. Sapere, o vivere.


Una storia che continua

leamoreau.it è il luogo dove tutto questo prende forma. Non è solo un sito. È un archivio narrativo: testi, suggestioni, visioni. Un mondo frammentato, come la mente di Léa, da esplorare senza fretta.

La scrittura di questo progetto è per me un atto di resistenza: contro la superficialità, contro la perdita di memoria, contro l’idea che tutto debba avere una spiegazione rapida.
Léa e Echoes sono simboli, specchi. Echi, appunto.


E adesso?

Adesso continuo a scrivere. A costruire. A scavare.
Perché ogni storia ha il suo tempo. E questa, lo sento, ha appena cominciato a farsi sentire.

Ieri sera ho assistito a qualcosa che mi ha profondamente colpito.

Sul palco c’erano tre fratelli, giovanissimi. Si fanno chiamare Sonic Rootz, e suonano insieme da due o tre anni. Il loro genere è un rock-blues crudo, quello che si sente con la pelle prima ancora che con le orecchie.

Ma ciò che mi ha lasciato senza parole non è stata solo la loro bravura tecnica o il loro affiatamento musicale (già sorprendente per l’età).

È stato il pubblico.

Davanti al palco, decine e decine di ragazzini.

Seduti. Attenti. Incantati.

Per un’ora intera hanno smesso di guardare lo schermo del cellulare. Hanno smesso di scorrere, di distrarsi, di passare oltre. E hanno iniziato a guardare, ad ascoltare, ad immaginare.

Ho visto nei loro occhi qualcosa che avevo dimenticato: l’ispirazione.

La possibilità di un percorso alternativo. La scoperta che esistono altri modi per vivere l’adolescenza, per sentirsi vivi, per esprimersi.

In quei tre fratelli, quei giovanissimi spettatori hanno trovato dei modelli da emulare, e questa è una fortuna rara, quasi un privilegio.

In un’epoca in cui ai ragazzi viene proposto un mondo sempre più virtuale, filtrato, passivo, i Sonic Rootz mostrano una via diversa: quella del suono, della fatica, del gruppo, della vibrazione reale.

Imbracciare uno strumento significa sporcarsi le mani con la propria interiorità, avere pazienza, coltivare un’identità. È un atto di resistenza e di creazione.

Per questo credo che dovrebbero suonare ovunque.

Nelle piazze, nelle scuole, nei festival, nei centri giovanili. Non solo perché sono bravi , lo sono davvero, ma perché sono estremamente formativi per gli altri giovani. Non solo intrattenimento: sono ispirazione attiva. Sono la dimostrazione che un’altra adolescenza è possibile, una che non si rifugia nel silenzio digitale ma si costruisce a colpi di chitarra, batteria e sguardi complici.

Forse il senso del cominciare a suonare uno strumento è tutto qui:

uscire dal rumore per trovare un suono proprio.

E’ fragile come un bambino

sempre in pericolo, sempre sotto attacco, 

perché è più facile

imporre qualsiasi cosa con la forza e la violenza

che stare lì a spiegare, a far capire a tutti,

persino le cose più elementari.

Fragile perché tutti siamo in vendita,

e spesso viene usata come merce di scambio,

perché è fatta di sottili equilibri,

che si spezzano al primo soffio di odio.

Ci illude di scegliere,

ma spesso  muore ogni volta 

che ci giriamo dall’altra parte,

ogni volta che il silenzio pesa più della coscienza.

E mentre applaudiamo gli slogan del nulla,

lei si consuma in un angolo,

con gli occhi sbarrati e le mani legate,

aspettando che qualcuno abbia ancora il coraggio

di chiamarla per nome: DEMOCRAZIA!

Mi hanno insegnato ad avere pazienza.
A non disturbare il potere mentre esercita se stesso.
A non guardarlo troppo negli occhi, a lasciarlo fare.
Mi hanno insegnato a chiamare normalità il sopruso,
a considerare inevitabile l’ingiustizia,
a convivere con la stortura, purché ben vestita.

Mi hanno insegnato che il potere ha le sue forme,
i suoi codici, i suoi rituali.
Che non va sfidato, ma semmai interpretato.
Che bisogna imparare a starci dentro.
Col silenzio giusto, l’inchino calibrato, il tono neutro.

Mi hanno insegnato — senza dirmelo — a non vedere.
A distogliere lo sguardo da quella piramide
che si staglia in ogni ufficio, in ogni istituzione,
in ogni pezzo di mondo dove c’è qualcuno che comanda
e molti che si stringono per restare sotto.

Una piramide perfetta nella sua gerarchia:
in cima pochi, pochissimi,
che decidono cosa vale e cosa no.
Che dall’alto gettano gli scarti,
gli avanzi, le parole riciclate,
e chi sta sotto, affamato di riconoscimento, li raccoglie
li mastica, li veste da opportunità.

Ai piani intermedi si lotta per salire di un gradino,
per avere un ufficio con più luce,
per poter a propria volta calare qualcosa —
un ordine, un favore, una minaccia sottile.
Ciascuno spera di non essere l’ultimo.

E poi c’è la base.
La più larga, la più affollata, la più invisibile.
Lì ci sono quelli che hanno fame vera:
di giustizia, di ascolto, di possibilità.
Ma anche loro, spesso, si arrampicano.
Non per ribaltare la piramide.
Per scalarla.
Perché il miraggio è forte: salire, salire,
fino a scomparire nella cima.

E mentre salgono,
ostentano la propria posizione provvisoria
come se fosse una vittoria,
un’affermazione,
non un prestito da restituire con interessi.

Io quel gioco lo vedo.
E non so ancora se ho imparato a starci dentro
o se continuo — con ostinazione —
a cercare un modo per camminare fuori

Il video che sto per riproporre l’avete già visto.
Magari vi è passato davanti distrattamente, magari l’avete apprezzato per la sua estetica, o per l’atmosfera.
Ma oggi sento il bisogno di raccontarvelo davvero.
Di spiegarne l’essenza.

Quello che vedete è girato su uno dei tanti tetti di Napoli
(vi dirò quale quando andrò in pensione 😄).
Un luogo non autorizzato, nel senso più creativo del termine.
Quel tetto era il nostro manifesto non scritto.
Una citazione silenziosa di gesti più grandi:
il live dei Beatles sulla Apple, gli U2 su un tetto a Los Angeles.

Lì c’era l’idea che la musica potesse uscire dalle stanze, prendere quota, fondersi col paesaggio.
Noi facevamo lo stesso, nel nostro piccolo.
Con una videocamera.
E un’intuizione.

Io e Cecilia.

Quel gesto aveva qualcosa di carbonaro, di brigantesco.
Un atto poetico travestito da marachella.
Come se stessimo cercando di liberare uno spirito prigioniero, proprio nel cuore di quel luogo.

Nel video Cecilia prende in mano una chitarra vera.
Non per suonarla, ma per evocare.
Interpreta Jimi Hendrix in Wait Until Tomorrow con un gesto lieve ma pieno di senso.

Quel frammento parla di libertà creativa.
Parla anche di un altro tempo: gli anni Settanta, che ci hanno formati senza che ce ne accorgessimo.
Che ritornano nei colori, nei riferimenti, nei feticci minimi che portavamo con noi senza esibirli.

E poi c’è l’aspetto più importante.
Sapevamo che non ci sarebbe stato niente in cambio.
Nessuna ribalta, nessun premio, nessuna “visibilità” da conquistare.

E per questo, con un sorriso tra noi, chiamavamo tutto questo:
Useless Mission.

Una missione inutile, sì.
Ma nel senso più vero, più puro.
Utile solo a chi la vive.