Il 30 luglio 2025 Greenpeace Italia ha pubblicato un appello duro sulla situazione di Gaza. Secondo l’organizzazione, far morire di fame i civili come metodo di guerra è un crimine che deve essere fermato immediatamente: nelle loro parole, “i palestinesi vengono uccisi e feriti mentre fanno la fila per procurarsi del cibo”, perché i punti di distribuzione degli aiuti sono stati militarizzati. La malnutrizione e la fame sono ormai diffuse nella Striscia, e il blocco deliberato di cibo e medicine amplifica il già pesante bilancio di vittime causato da proiettili e bombe.

Le critiche al sistema di aiuti e alla comunità internazionale

Nel comunicato, Greenpeace attribuisce la gravità della situazione al sistema di distribuzione degli aiuti attualmente in vigore. I piccoli cambiamenti annunciati dal governo israeliano sono giudicati insufficienti, e l’organizzazione avverte che, se la comunità internazionale continuerà a restare a guardare, rischia di essere complice di crimini di guerra.

Per affrontare la crisi, Greenpeace rinnova l’appello ai leader mondiali perché adottino misure concrete contro quella che definisce pulizia etnica e carestia. Viene citata l’organizzazione umanitaria Action Against Hunger, che chiede la revoca delle restrizioni burocratiche e amministrative, l’apertura di tutti i valichi di frontiera, un accesso senza ostacoli agli aiuti e la ripresa di una risposta umanitaria guidata dalle Nazioni Unite. Solo la fine dell’assedio e lo sblocco dei convogli di aiuti ammassati al confine potranno evitare un aggravamento della carestia.

Le richieste formulate da Greenpeace

Nel testo vengono elencate alcune misure che Greenpeace chiede alla comunità internazionale di sostenere:

  • Rilascio dei detenuti e degli ostaggi. La liberazione di tutti i palestinesi detenuti illegalmente da Israele e di tutti gli ostaggi in mano ad Hamas.

  • Cessate il fuoco immediato. Un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente per porre fine agli attacchi contro civili e ambiente.

  • Sanzioni e embargo sulle armi. L’imposizione di sanzioni mirate e un embargo totale sulle armi da parte della comunità internazionale.

  • Accesso umanitario senza ostacoli. La distribuzione senza restrizioni degli aiuti da parte delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni umanitarie.

  • Fine dell’occupazione. La fine dell’occupazione illegale della Palestina. L’organizzazione conclude ricordando che la crisi umanitaria in atto esige un intervento immediato e coordinato per evitare una catastrofe ancora più grave e che l’uso della fame come arma di guerra non può essere tollerato.


Nei giorni scorsi a Venezia si è celebrato il matrimonio di Jeff Bezos. La cosa non mi avrebbe fatto particolare effetto se non fosse per ciò che ho visto (e che mi ha fatto riflettere) in piazza San Marco: un gigantesco striscione di 20×20 metri con la scritta “If you can rent Venice for your wedding, you can pay more tax”, ossia “Se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, allora puoi pagare più tasse”. A srotolarlo sono stati attivisti e attiviste di Greenpeace Italia insieme al gruppo britannico Everyone Hates Elon.

Perché parlo di questa protesta

Mi ha colpito come la protesta sia riuscita a concentrare in un’immagine e in poche parole un messaggio potente. Nel leggere le motivazioni di Greenpeace ho ritrovato molte delle mie convinzioni: da una parte l’ostentazione di ricchezza di pochi miliardari che vivono senza limiti, dall’altra milioni di persone che subiscono gli effetti della crisi climatica. Secondo Greenpeace, stili di vita come quelli dei super ricchi stanno letteralmente “portando il pianeta al collasso”. Jeff Bezos – terzo uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato in oltre 200 miliardi di dollari – è diventato il simbolo di questa disparità: la città blindata per il suo matrimonio mentre chi non ha voce soffre le conseguenze dell’emergenza climatica.

Cosa chiedono gli attivisti

La protesta non è solo un gesto dimostrativo: chiede un cambiamento concreto. Greenpeace sostiene che tassare i super ricchi e i settori più inquinanti (industria fossile e difesa) sia un passo necessario per finanziare la transizione energetica e colmare le diseguaglianze. Secondo l’organizzazione, se le fortune dei miliardari venissero tassate in modo equo, si potrebbero trovare risorse per investire nelle energie rinnovabili e per rafforzare il welfareh. Leggendo questi dati mi sono chiesto: perché chi inquina e accumula ricchezza dovrebbe essere esentato dal contribuire alla soluzione?

Verso una giustizia fiscale globale

Nel comunicato di Greenpeace si fa riferimento anche alla convenzione fiscale dell’ONU, un possibile strumento per armonizzare le regole fiscali a livello mondiale e chiudere le scappatoie che permettono ai super ricchi di eludere il fisco. Questa proposta è sostenuta da numerosi Stati e da centinaia di organizzazioni della società civile. Personalmente ritengo fondamentale che la giustizia fiscale diventi una questione globale: non è accettabile che poche persone possano usufruire delle infrastrutture pubbliche senza contribuire al loro mantenimento.

Il messaggio che porto a casa

Quella in piazza San Marco non era solo una protesta contro Jeff Bezos, ma un invito a guardare oltre. Mi ha ricordato che la lotta per la giustizia sociale e climatica passa anche dalla capacità di mettere in discussione un modello economico ingiusto. La frase “Se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, puoi pagare più tasse” sintetizza un concetto semplice: chi ha di più deve fare di più per il bene comune. È un’idea che mi appartiene e che voglio condividere anche qui, su queste pagine.

Chissà che facce tirate nei salotti buoni, tra un editoriale imbellettato e una cena di gala. Chissà quanta ipocrisia si sparge tra le righe dei quotidiani più “seri”, quando un piccolo uomo come Matteo Salvini viene incoronato con il Premio Italia–Israele.
Sì, proprio lui. L’ometto rigido come un soprammobile di plastica, sospeso perennemente tra il selfie in spiaggia e l’ossessione securitaria. Proprio a lui l’onore, la targa, la carezza sul capo da parte dell’ambasciatore Jonathan Peled, come se stessimo premiando un salvatore e non il portavoce entusiasta di un massacro.

Lo chiamano “coraggio di prendere posizioni di rottura”.
Rottura del diritto internazionale. Rottura delle convenzioni di Ginevra. Rottura della decenza.

Mentre a Gaza i bambini morivano soffocati tra le macerie, mentre l’odore del fosforo bianco impregnava l’aria, a Roma si consumava questa piccola sceneggiata da estetica dell’osceno. Salvini, con la stessa espressione compiaciuta di chi indossa l’ennesima felpa promozionale, sorrideva. E intanto i bulldozer, lontano dalle luci della cerimonia, radevano al suolo ospedali, scuole, ambulanze.


La grammatica dell’orrore

C’è sempre una frase pronta, un mantra prefabbricato.

“Non si possono mettere sullo stesso piano una democrazia e un gruppo terroristico.”

Israele, la “democrazia”. Hamas, il “terrorismo”. E in mezzo?
In mezzo ci sono centinaia di migliaia di civili schiacciati sotto bombe intelligenti, incubatrici spente, file per il cibo crivellate dai proiettili. Ma per Salvini questi sono dettagli collaterali, roba da footnote nella sua narrazione binaria.

Chi osa ricordare che Gaza è un carcere a cielo aperto viene bollato come “fascista”. Fascisti Amnesty International? Fascisti i medici che estraggono neonati senza braccia dalle macerie? Fascisti persino quelli che, dentro le Nazioni Unite, osano parlare di crimini di guerra? È la magia dell’illusione selettiva: basta pronunciare “Hamas” e puff, 370.000 morti evaporano dietro una bandiera blu e bianca.


La premiazione della vergogna

Il premio è stato consegnato nella Sala della Camera dei Deputati, nel cuore della democrazia italiana. Ecco il punto: non è solo Salvini. È l’istituzione stessa che si piega, che offre un palcoscenico alla legittimazione del massacro. Non c’è più neanche il pudore di nascondersi.

Non stupisce. Salvini ha costruito tutta la sua carriera aderendo all’inumano:

  • Ha lasciato marcire bambini in mare.

  • Ha criminalizzato chi salva vite.

  • Ha trasformato il dolore in spot elettorale.

Oggi riceve una medaglia che non unisce, ma divide. È la medaglia dell’Occidente impazzito, quella che premia chi resta in silenzio mentre i bambini muoiono, e applaude mentre qualcuno li uccide.


Complicità, cipria e vergogna

Chi lo premia, chi si gira dall’altra parte, chi minimizza, è complice. Alcuni con più esibizionismo, altri con più cipria e buone maniere. Ma complici lo stesso.

A chi resta un briciolo di lucidità non resta che vergognarsi. Non di sorpresa, ma per coscienza. Perché questa pantomima è il ritratto perfetto del nostro tempo: un tempo in cui la democrazia si autopremia mentre schiaccia, in cui il colonialismo si reinventa come “diritto alla difesa”.

E noi?
Noi restiamo qui, a contare i morti e a scrivere parole che, forse, non basteranno. Ma almeno non taceranno.

Mentre in Italia un giovane deve collezionare master, stage non pagati e raccomandazioni di seconda mano per guadagnarsi uno stipendio da sopravvivenza, c’è chi con un solo cognome riesce a sedersi su una poltrona da 230mila euro l’anno.

Geronimo La Russa – sì, quel La Russa, figlio della seconda carica dello Stato – è stato eletto presidente dell’Automobile Club d’Italia con un plebiscito annunciato. Un ente pubblico non economico che gestisce milioni di euro, controlla l’Autodromo di Monza e Sara Assicurazioni, e incassa da tasse e iscrizioni di automobilisti già tartassati.

La scena è sempre la stessa: l’Italia che arranca, i ragazzi che fuggono all’estero per trovare dignità, e i “figli di” che scalano poltrone come se fosse il loro naturale diritto di nascita. Perché sì, qui non si parla di meritocrazia: qui parliamo di familocrazia.

C’è chi dice: “Ha le competenze”. Certo. Come no. Peccato che, guarda caso, proprio pochi mesi fa sia stato approvato un emendamento che modificava i limiti di mandato del presidente ACI, aprendo la strada alla sua elezione. Un colpo di scena degno di una sceneggiatura già scritta.

Nel frattempo, il Movimento 5 Stelle e parte delle opposizioni urlano allo scandalo. “230 mila euro per un figlio di papà!” Ma tranquilli, il governo minimizza: è tutto perfettamente legale.

E noi? Noi cittadini assistiamo a questo teatrino, pagando bollo, superbollo e assicurazioni salate, mentre qualcuno incassa un compenso pari a 10 anni di stipendi di un operaio.

E’ fragile come un bambino

sempre in pericolo, sempre sotto attacco, 

perché è più facile

imporre qualsiasi cosa con la forza e la violenza

che stare lì a spiegare, a far capire a tutti,

persino le cose più elementari.

Fragile perché tutti siamo in vendita,

e spesso viene usata come merce di scambio,

perché è fatta di sottili equilibri,

che si spezzano al primo soffio di odio.

Ci illude di scegliere,

ma spesso  muore ogni volta 

che ci giriamo dall’altra parte,

ogni volta che il silenzio pesa più della coscienza.

E mentre applaudiamo gli slogan del nulla,

lei si consuma in un angolo,

con gli occhi sbarrati e le mani legate,

aspettando che qualcuno abbia ancora il coraggio

di chiamarla per nome: DEMOCRAZIA!

Mi hanno insegnato ad avere pazienza.
A non disturbare il potere mentre esercita se stesso.
A non guardarlo troppo negli occhi, a lasciarlo fare.
Mi hanno insegnato a chiamare normalità il sopruso,
a considerare inevitabile l’ingiustizia,
a convivere con la stortura, purché ben vestita.

Mi hanno insegnato che il potere ha le sue forme,
i suoi codici, i suoi rituali.
Che non va sfidato, ma semmai interpretato.
Che bisogna imparare a starci dentro.
Col silenzio giusto, l’inchino calibrato, il tono neutro.

Mi hanno insegnato — senza dirmelo — a non vedere.
A distogliere lo sguardo da quella piramide
che si staglia in ogni ufficio, in ogni istituzione,
in ogni pezzo di mondo dove c’è qualcuno che comanda
e molti che si stringono per restare sotto.

Una piramide perfetta nella sua gerarchia:
in cima pochi, pochissimi,
che decidono cosa vale e cosa no.
Che dall’alto gettano gli scarti,
gli avanzi, le parole riciclate,
e chi sta sotto, affamato di riconoscimento, li raccoglie
li mastica, li veste da opportunità.

Ai piani intermedi si lotta per salire di un gradino,
per avere un ufficio con più luce,
per poter a propria volta calare qualcosa —
un ordine, un favore, una minaccia sottile.
Ciascuno spera di non essere l’ultimo.

E poi c’è la base.
La più larga, la più affollata, la più invisibile.
Lì ci sono quelli che hanno fame vera:
di giustizia, di ascolto, di possibilità.
Ma anche loro, spesso, si arrampicano.
Non per ribaltare la piramide.
Per scalarla.
Perché il miraggio è forte: salire, salire,
fino a scomparire nella cima.

E mentre salgono,
ostentano la propria posizione provvisoria
come se fosse una vittoria,
un’affermazione,
non un prestito da restituire con interessi.

Io quel gioco lo vedo.
E non so ancora se ho imparato a starci dentro
o se continuo — con ostinazione —
a cercare un modo per camminare fuori