Ieri sera ho assistito a qualcosa che mi ha profondamente colpito.
Sul palco c’erano tre fratelli, giovanissimi. Si fanno chiamare Sonic Rootz, e suonano insieme da due o tre anni. Il loro genere è un rock-blues crudo, quello che si sente con la pelle prima ancora che con le orecchie.
Ma ciò che mi ha lasciato senza parole non è stata solo la loro bravura tecnica o il loro affiatamento musicale (già sorprendente per l’età).
È stato il pubblico.
Davanti al palco, decine e decine di ragazzini.
Seduti. Attenti. Incantati.
Per un’ora intera hanno smesso di guardare lo schermo del cellulare. Hanno smesso di scorrere, di distrarsi, di passare oltre. E hanno iniziato a guardare, ad ascoltare, ad immaginare.
Ho visto nei loro occhi qualcosa che avevo dimenticato: l’ispirazione.
La possibilità di un percorso alternativo. La scoperta che esistono altri modi per vivere l’adolescenza, per sentirsi vivi, per esprimersi.
In quei tre fratelli, quei giovanissimi spettatori hanno trovato dei modelli da emulare, e questa è una fortuna rara, quasi un privilegio.
In un’epoca in cui ai ragazzi viene proposto un mondo sempre più virtuale, filtrato, passivo, i Sonic Rootz mostrano una via diversa: quella del suono, della fatica, del gruppo, della vibrazione reale.
Imbracciare uno strumento significa sporcarsi le mani con la propria interiorità, avere pazienza, coltivare un’identità. È un atto di resistenza e di creazione.
Per questo credo che dovrebbero suonare ovunque.
Nelle piazze, nelle scuole, nei festival, nei centri giovanili. Non solo perché sono bravi , lo sono davvero, ma perché sono estremamente formativi per gli altri giovani. Non solo intrattenimento: sono ispirazione attiva. Sono la dimostrazione che un’altra adolescenza è possibile, una che non si rifugia nel silenzio digitale ma si costruisce a colpi di chitarra, batteria e sguardi complici.
Forse il senso del cominciare a suonare uno strumento è tutto qui:
uscire dal rumore per trovare un suono proprio.