Li ricordo bene, quei tempi. Ricordo soprattutto la sensazione di liberazione, quasi fisica, che ho provato. Eravamo – e siamo ancora – un Paese corrotto, ma allora la corruzione era talmente sfacciata da essere visibile a occhio nudo. Quell’atteggiamento era la norma, e la vera eccezione era quel magistrato contadino che si vestiva da fesso e aggiungeva, come si dice, “scarpe grosse e cervello fino”. Forse ignorava, o faceva finta di ignorare, i tanti fattori che avevano reso possibile la sua inchiesta. Ma questa è un’altra storia.

Fatto sta che, dopo anni di razzie, finalmente quella melma venne portata alla luce.

Al Sud, l’assalto alla diligenza era ancora più palese: ogni volta che c’era un bottino pubblico da spartire, la politica e la criminalità organizzata si fondevano in un unico, disgustoso abbraccio. Nemmeno si sforzavano di salvare le apparenze. Sapevano che quel mix di ostentazione del potere, ricchezza sfacciata e intimidazione al voto garantiva il successo elettorale. E il successo elettorale portava altro denaro pubblico da divorare.

E infatti i soldi cadevano a pioggia su chiunque partecipasse al banchetto. Il terremoto dell’Irpinia non era lontano: nullafacenti si costruivano ville, giravano con auto di lusso, e nessuno controllava niente. Le faide erano continue: si combatteva per le carcasse già spolpate dalla politica.

Attorno a quei resti vigeva la legge del più forte. Ogni clan cercava il pezzo più succulento, e chi osava protestare finiva ammazzato. Questa è la fottuta storia che nessuno vi racconta, perché, in fondo, non è cambiato nulla. La storia della Prima Repubblica non è mai finita. Sono cambiati i volti, i metodi, le narrazioni, ma la sostanza è rimasta identica: corruzione, corruzione, corruzione.

Anzi, quel breve spiraglio di luce nella storia repubblicana fu probabilmente voluto da chi tramava nell’ombra: la P2 e le mafie scrissero la storia successiva, cancellando una classe politica figlia della Costituente che aveva già tradito i padri fondatori, vendendo i loro principi in cambio di conti nei paradisi fiscali.

Quel sistema, che Di Pietro fece solo vacillare, lasciò in eredità una rete impenetrabile di clientele e cellule dormienti nei punti chiave della società. Sono loro – dirigenti, funzionari, giornalisti – la spina dorsale dell’establishment. Mantengono in equilibrio un meccanismo che garantisce privilegi infiniti, riportando tutto sempre al punto di partenza, nelle mani di chi può assicurare la stabilità del loro status.

Finché questa rete resterà in piedi, nessuna rivoluzione sarà possibile in questo Paese.
E chi vorrà davvero cambiare le cose dovrà ricordarsi una sola regola: non si fa patti con il marcio. Perché il marcio, prima o poi, ti divora.

E mentre vi scrivo, nelle sale cinematografiche proiettano Hammamet, un film che cerca di ripulire l’immagine di Bettino Craxi, raccontandone l’esilio nella villa tunisina dove sarebbe morto poco dopo.

Morì da latitante, con due condanne definitive sulle spalle: 5 anni e 6 mesi per corruzione nell’inchiesta Eni-SAI e 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito della Metropolitana Milanese. Eppure, c’è ancora chi lo chiama “statista”.

Questo è il Paese che siamo. Questo è il Paese che fingiamo di non vedere.

Benedetto Craxi Il testamento inedito

MONTANELLI TANGENTOPOLI