Mi hanno insegnato ad avere pazienza.
A non disturbare il potere mentre esercita se stesso.
A non guardarlo troppo negli occhi, a lasciarlo fare.
Mi hanno insegnato a chiamare normalità il sopruso,
a considerare inevitabile l’ingiustizia,
a convivere con la stortura, purché ben vestita.

Mi hanno insegnato che il potere ha le sue forme,
i suoi codici, i suoi rituali.
Che non va sfidato, ma semmai interpretato.
Che bisogna imparare a starci dentro.
Col silenzio giusto, l’inchino calibrato, il tono neutro.

Mi hanno insegnato — senza dirmelo — a non vedere.
A distogliere lo sguardo da quella piramide
che si staglia in ogni ufficio, in ogni istituzione,
in ogni pezzo di mondo dove c’è qualcuno che comanda
e molti che si stringono per restare sotto.

Una piramide perfetta nella sua gerarchia:
in cima pochi, pochissimi,
che decidono cosa vale e cosa no.
Che dall’alto gettano gli scarti,
gli avanzi, le parole riciclate,
e chi sta sotto, affamato di riconoscimento, li raccoglie
li mastica, li veste da opportunità.

Ai piani intermedi si lotta per salire di un gradino,
per avere un ufficio con più luce,
per poter a propria volta calare qualcosa —
un ordine, un favore, una minaccia sottile.
Ciascuno spera di non essere l’ultimo.

E poi c’è la base.
La più larga, la più affollata, la più invisibile.
Lì ci sono quelli che hanno fame vera:
di giustizia, di ascolto, di possibilità.
Ma anche loro, spesso, si arrampicano.
Non per ribaltare la piramide.
Per scalarla.
Perché il miraggio è forte: salire, salire,
fino a scomparire nella cima.

E mentre salgono,
ostentano la propria posizione provvisoria
come se fosse una vittoria,
un’affermazione,
non un prestito da restituire con interessi.

Io quel gioco lo vedo.
E non so ancora se ho imparato a starci dentro
o se continuo — con ostinazione —
a cercare un modo per camminare fuori