Dicono che nella vita conti lasciare il segno. Essere ricordati. Beh, io non ci sono su Wikipedia. E probabilmente non ci finirò mai. Non sono un genio della scienza, non ho vinto un Oscar, non ho nemmeno fatto la rivoluzione (o forse sì, a modo mio). Ma ho vissuto, ho suonato, ho filmato, ho amato e soprattutto ho osservato. E questo, alla fine, è il massimo che si possa chiedere a una buona storia.
A cinque anni suonavo rubando la chitarra elettrica di mio zio Aldo. Lui me lo vietava, o almeno così diceva. In realtà, la lasciava sempre lì, ben in vista, come se volesse tentarmi, come se sapesse che il divieto non avrebbe fatto altro che accendere la mia curiosità. Erano gli anni ’60, il mondo era invaso dalla musica dei Beatles, di Jimi Hendrix, ma io vivevo in un paesino sperduto, lontano da tutto. Il mio unico contatto con la realtà musicale erano la televisione e il jukebox del bar sotto casa, il bar di “Pasquarella”.
Il locale aveva una doppia vita. Di notte si riempiva di giocatori d’azzardo che, tra fumo denso e bestemmie, inseguivano la fortuna fino all’alba. Ricordo una notte in particolare: uno di loro, dopo aver perso tutto, uscì barcollando, salì sulla sua Fiat 850 bianca e si schiantò a tutta velocità contro un albero.
Il botto svegliò tutti il paese, io mi affacciai alla finestra e vidi la scena. Era il padre di un mio amico, faceva il muratore, e la sua famiglia non navigava certo nell’oro. Quelle scene, così crude e reali, facevano parte della mia infanzia tanto quanto la musica che usciva dal jukebox.
Di mattina il bar cambiava volto. Il fumo stantio rimaneva nell’aria, ma i protagonisti erano altri: i giovani del paese, ragazzi con il sogno dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Parlavano delle rivolte del ’68, sognavano Woodstock, volevano sentirsi parte di un mondo più grande. Fu grazie a loro che il jukebox di Pasquarella cambiò repertorio. Impostarono una regola: metà delle canzoni dovevano essere scelte da loro. Così, accanto alle canzoni napoletane – Mario Merola, Pino Mauro e i cantanti “di giacca” che raccontavano le gesta della malavita – iniziarono a suonare le note dei Rolling Stones, dei Beatles, di Jimi Hendrix, di Janis Joplin. Si era creata persino una gara tra gli utenti del bar nel cercare di alternare i generi.
Era un contrasto fortissimo: un’alternanza continua tra “Curtielle pe curtielle”, “Dolce vita” e “Angie” dei Rolling Stones, “Hey Jude” dei Beatles, “Little Wing” di Hendrix. Una strana commistione che forse mi ha segnato per sempre, impedendomi di scegliere un solo genere musicale. Ho sempre spaziato tra tutto, perché persino “Curtielle pe curtielle” aveva una sua dignità, suonata da turnisti napoletani di talento. E forse è proprio lì che ho imparato che la musica è una sola, che le barriere tra i generi esistono solo per chi non sa ascoltare davvero.
E poi c’erano i “capelloni”. Ah, i capelloni! Nei piccoli centri erano visti come una minaccia all’ordine costituito, quasi peggio dei delinquenti. Bastava avere i capelli appena sotto le orecchie per essere additati come sovversivi, scansafatiche e, nei casi peggiori, persino drogati. Le vecchiette scuotevano la testa al loro passaggio, i padri di famiglia li indicavano ai figli come monito: “Non fare la fine di quello lì!”. I barbieri del paese, veri guardiani della moralità collettiva, facevano affari d’oro tagliando chiome ribelli dietro insistenze materne.
Anzi, spesso nell’immaginario collettivo locale, i delinquenti assurgevano al ruolo dell’eroe, e molti si atteggiavano a Mario Merola. Erano figure mitologiche, raccontate nei bar come leggende moderne, idolatrate per le loro gesta quasi romantiche di ribellione contro il sistema. Anzi, tra i giovani e questi personaggi c’era un vero e proprio muro generazionale. Per loro il sogno non era delinquere o ispirarsi a modelli di malavita, ma costruire un mondo di pace e condivisione, lontano dalle logiche di violenza e sopruso che sembravano affascinare la generazione precedente.
Eppure, nonostante lo sguardo diffidente dei più, i capelloni erano quelli che sapevano cosa succedeva nel mondo, quelli che ascoltavano la musica più interessante, che portavano nuove idee. Con il tempo, anche il bar di Pasquarella dovette ammettere che non erano poi così male, specialmente quando si trattava di mettere la moneta giusta nel jukebox e far partire un pezzo dei Doors o di Bob Dylan. E forse è proprio lì che ho imparato che la musica è una sola, che le barriere tra i generi esistono solo per chi non sa ascoltare davvero.