Ci sono progetti che non sono solo lavoro.
Sono sfide, immersioni totali, esperienze che ti cambiano.
“Je sto vicino a te – Forever”, trasmissione speciale dedicata a Pino Daniele andata in onda su Rai 3 il 5 aprile 2025, è stato tutto questo. E molto di più.
Non avrei potuto affrontarlo da solo.
Perché dietro ogni immagine, ogni composizione visiva, ogni scelta narrativa, c’è stato un team eccezionale: appassionato, competente, instancabile. Ognuno ha dato tutto ciò che poteva – spesso anche di più – per far sì che questa visione diventasse reale.
Personalmente, ho lavorato su ogni aspetto visivo: montaggio, videomaking, videocomposizione, intelligenza artificiale, sperimentazione e finezza tecnica. Sedici ore al giorno per quindici giorni consecutivi. Una corsa contro il tempo, soprattutto dopo l’anticipo della messa in onda dal 20 al 5 aprile. Ma in quella corsa non ero solo: c’erano mani e cuori al mio fianco. E questo ha fatto la differenza.
Ma non è andato tutto liscio.
C’è stato un momento, durante la realizzazione, in cui qualcosa ha vacillato. Un inciampo imprevisto, una crepa che mi ha tolto il fiato e che ha fatto traballare le certezze. Non riuscivo a godermi il risultato, anzi: mi ci sono perso dentro, con la sensazione di non aver più il controllo su ciò che avevo creato. È stato un momento buio, in cui la fatica accumulata ha lasciato spazio allo smarrimento e al dubbio profondo.
Poi, col tempo, è emersa una forma di verità. O, forse, un compromesso accettabile tra ciò che avevo immaginato e ciò che alla fine è arrivato al pubblico. Quello che avevo costruito con cura estrema, con le mani tremanti e le idee chiarissime, conservava il senso, la coerenza, l’intenzione.
E in quel momento, qualcosa si è sciolto. Non la fatica, non la stanchezza, ma il nodo in gola. Perché avevo fatto la cosa giusta. Anche se non me ne ero potuto accorgere subito.
Il lavoro con l’AI è stato un viaggio nel futuro, ma vissuto con tutte le fragilità del presente. Ogni scelta visiva, ogni passaggio di montaggio, ogni composizione aveva una sua anima. Non c’era nulla di meccanico, nulla di freddo. Solo ore e ore di attenzione, sensibilità e passione.
Il risultato è qui, visibile a tutti:
🔗 Guarda “Je sto vicino a te – Forever” su RaiPlay
Racconto tutto questo perché ho bisogno di ricordarlo, prima che svanisca tra le mail, i prossimi incarichi, la stanchezza cronica.
Questa non è solo una trasmissione.
È una testimonianza collettiva. È il frutto di uno sforzo comune, di una visione portata avanti da persone diverse, con sensibilità diverse, ma unite da un intento profondo.
È stato difficile.
È stato tutto.
E ne è valsa la pena.
«Voci nel Vento»: palloncini azzurri e messaggi nel cielo per l’autismo La commovente iniziativa vede famiglie e bambini scrivere messaggi di speranza e affidarli a palloncini azzurri, liberati insieme nel cielo. Un gesto d’amore e condivisione per dare voce all’autismo in vista della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo (2 aprile). Napoli, 2 aprile 2025 – In questi giorni, in varie città italiane, famiglie e bambini si sono riuniti per dare vita all’iniziativa «Voci nel Vento». La scena, semplice e carica di emozione, vede genitori e figli scrivere su piccoli fogli messaggi di speranza dedicati all’autismo. Questi bigliettini vengono poi legati a palloncini azzurri – il colore simbolo dell’autismo – e, a un segnale condiviso, i palloncini vengono liberati, innalzandosi insieme nel cielo terso. I messaggi, affidati al vento, volano così sopra le città come voci che finalmente si fanno sentire. La potenza di questo gesto simbolico è immediatamente percepibile da chi vi assiste. Ogni palloncino che vola via porta con sé un pensiero, una “voce” silenziosa che ora può parlare al mondo. L’obiettivo è rendere visibile l’invisibile e dare voce all’autismo attraverso l’amore e la condivisione. Pensieri che solitamente restano nel privato – nel silenzio di tante famiglie che vivono la quotidianità dell’autismo – diventano improvvisamente visibili a tutti, librandosi sopra le nostre teste. I messaggi nel cielo simboleggiano le tante voci delle persone nello spettro autistico e dei loro cari, voci che troppo spesso rimangono inascoltate. In questo modo ciò che prima era invisibile agli occhi della comunità viene reso tangibile e impossibile da ignorare. L’iniziativa «Voci nel Vento» acquista un significato ancora più profondo in vista del 2 aprile, Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo. Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2007 AUTISMO.IT , questa ricorrenza annuale richiama l’attenzione sui diritti e i bisogni delle persone con autismo in tutto il mondo. Alla vigilia di questa giornata, il volo simultaneo dei palloncini azzurri in tante città rappresenta un messaggio condiviso di consapevolezza e speranza. Il colore azzurro che tradizionalmente illumina monumenti e piazze il 2 aprile – scelto come simbolo internazionale dell’autismo – riecheggia nei palloncini di «Voci nel Vento», unendo idealmente le comunità locali a quella globale in un’unica voce per l’autismo. La partecipazione a questa campagna di sensibilizzazione è aperta a tutti. I promotori invitano cittadini, istituzioni, scuole e associazioni ad unirsi al volo simbolico di Voci nel Vento e a farsi portavoce del messaggio di inclusione che esso rappresenta. Ognuno può dare il proprio contributo per accrescere la consapevolezza sull’autismo, in molti modi diversi. Ad esempio, in occasione del 2 aprile ciascuno può: Partecipare alle iniziative organizzate sul territorio in occasione della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo, prendendo parte attiva agli eventi e ai flash mob dedicati. Condividere sui social network e nei propri ambienti i messaggi di Voci nel Vento, diffondendo la consapevolezza e testimoniando il proprio supporto alle famiglie e alle persone autistiche. Sensibilizzare la comunità parlando di autismo con amici, colleghi e familiari, per promuovere comprensione, rispetto e inclusione verso le persone nello spettro autistico. Per le famiglie coinvolte, vedere i propri messaggi alzarsi in volo significa sapere di non essere sole. La liberazione simultanea di decine di palloncini azzurri dimostra che la società può e vuole ascoltare: il loro gesto mostra a tutti noi che ciascuna di quelle voci conta. Il 2 aprile, quelle voci nel vento ci ricordano che comprensione e solidarietà iniziano da gesti semplici ma condivisi. Insieme, rendiamo visibile l’invisibile: un palloncino azzurro alla volta, diamo voce a chi non può esprimerla e costruiamo una comunità più consapevole, inclusiva e unita.
Dicono che nella vita conti lasciare il segno. Essere ricordati. Beh, io non ci sono su Wikipedia. E probabilmente non ci finirò mai. Non sono un genio della scienza, non ho vinto un Oscar, non ho nemmeno fatto la rivoluzione (o forse sì, a modo mio). Ma ho vissuto, ho suonato, ho filmato, ho amato e soprattutto ho osservato. E questo, alla fine, è il massimo che si possa chiedere a una buona storia.
A cinque anni suonavo rubando la chitarra elettrica di mio zio Aldo. Lui me lo vietava, o almeno così diceva. In realtà, la lasciava sempre lì, ben in vista, come se volesse tentarmi, come se sapesse che il divieto non avrebbe fatto altro che accendere la mia curiosità. Erano gli anni ’60, il mondo era invaso dalla musica dei Beatles, di Jimi Hendrix, ma io vivevo in un paesino sperduto, lontano da tutto. Il mio unico contatto con la realtà musicale erano la televisione e il jukebox del bar sotto casa, il bar di “Pasquarella”.
Il locale aveva una doppia vita. Di notte si riempiva di giocatori d’azzardo che, tra fumo denso e bestemmie, inseguivano la fortuna fino all’alba. Ricordo una notte in particolare: uno di loro, dopo aver perso tutto, uscì barcollando, salì sulla sua Fiat 850 bianca e si schiantò a tutta velocità contro un albero.
Il botto svegliò tutti il paese, io mi affacciai alla finestra e vidi la scena. Era il padre di un mio amico, faceva il muratore, e la sua famiglia non navigava certo nell’oro. Quelle scene, così crude e reali, facevano parte della mia infanzia tanto quanto la musica che usciva dal jukebox.
Di mattina il bar cambiava volto. Il fumo stantio rimaneva nell’aria, ma i protagonisti erano altri: i giovani del paese, ragazzi con il sogno dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Parlavano delle rivolte del ’68, sognavano Woodstock, volevano sentirsi parte di un mondo più grande. Fu grazie a loro che il jukebox di Pasquarella cambiò repertorio. Impostarono una regola: metà delle canzoni dovevano essere scelte da loro. Così, accanto alle canzoni napoletane – Mario Merola, Pino Mauro e i cantanti “di giacca” che raccontavano le gesta della malavita – iniziarono a suonare le note dei Rolling Stones, dei Beatles, di Jimi Hendrix, di Janis Joplin. Si era creata persino una gara tra gli utenti del bar nel cercare di alternare i generi.
Era un contrasto fortissimo: un’alternanza continua tra “Curtielle pe curtielle”, “Dolce vita” e “Angie” dei Rolling Stones, “Hey Jude” dei Beatles, “Little Wing” di Hendrix. Una strana commistione che forse mi ha segnato per sempre, impedendomi di scegliere un solo genere musicale. Ho sempre spaziato tra tutto, perché persino “Curtielle pe curtielle” aveva una sua dignità, suonata da turnisti napoletani di talento. E forse è proprio lì che ho imparato che la musica è una sola, che le barriere tra i generi esistono solo per chi non sa ascoltare davvero.
E poi c’erano i “capelloni”. Ah, i capelloni! Nei piccoli centri erano visti come una minaccia all’ordine costituito, quasi peggio dei delinquenti. Bastava avere i capelli appena sotto le orecchie per essere additati come sovversivi, scansafatiche e, nei casi peggiori, persino drogati. Le vecchiette scuotevano la testa al loro passaggio, i padri di famiglia li indicavano ai figli come monito: “Non fare la fine di quello lì!”. I barbieri del paese, veri guardiani della moralità collettiva, facevano affari d’oro tagliando chiome ribelli dietro insistenze materne.
Anzi, spesso nell’immaginario collettivo locale, i delinquenti assurgevano al ruolo dell’eroe, e molti si atteggiavano a Mario Merola. Erano figure mitologiche, raccontate nei bar come leggende moderne, idolatrate per le loro gesta quasi romantiche di ribellione contro il sistema. Anzi, tra i giovani e questi personaggi c’era un vero e proprio muro generazionale. Per loro il sogno non era delinquere o ispirarsi a modelli di malavita, ma costruire un mondo di pace e condivisione, lontano dalle logiche di violenza e sopruso che sembravano affascinare la generazione precedente.
Eppure, nonostante lo sguardo diffidente dei più, i capelloni erano quelli che sapevano cosa succedeva nel mondo, quelli che ascoltavano la musica più interessante, che portavano nuove idee. Con il tempo, anche il bar di Pasquarella dovette ammettere che non erano poi così male, specialmente quando si trattava di mettere la moneta giusta nel jukebox e far partire un pezzo dei Doors o di Bob Dylan.
L’influenza di Silvio Berlusconi, anche dopo la sua scomparsa nel 2023, rimane significativa in diversi ambiti della vita italiana, grazie al suo lungo periodo di protagonismo nella politica, nei media e nell’imprenditoria. Ecco come si manifesta ancora oggi:
In definitiva, l’influenza di Berlusconi si estende oltre la politica, modellando il modo in cui gli italiani pensano al potere, al successo e alla leadership. Superare questa eredità richiederà tempo e un cambiamento culturale profondo.
Nonostante il passare del tempo e la scomparsa di Silvio Berlusconi, la sua eredità politica e culturale continua a influenzare il panorama italiano, compreso il governo Meloni. Ecco come il “berlusconismo” si intreccia con l’attuale leadership:
Il berlusconismo ha lasciato una doppia eredità:
Meloni si trova quindi in una posizione ambivalente: pur cercando di marcare una discontinuità con il passato, il suo governo è inevitabilmente condizionato dalle dinamiche e dagli assetti creati da Berlusconi.
In sintesi, il “berlusconismo” è al contempo un’eredità e un limite per il governo Meloni, che si muove tra continuità e rinnovamento, cercando di ridefinire il centro-destra senza rompere del tutto con il passato.
Dieci anni fa, il 5 gennaio 2015, Napoli si fermò. L’improvvisa scomparsa di Pino Daniele spezzò il cuore della città, del Sud, di tutta l’Italia. Per due giorni, l’aria fu impregnata di dolore e incredulità, mentre la sua musica, i suoi testi, le sue melodie risuonavano ovunque: dai balconi, dalle autoradio, nelle piazze. La commozione popolare si riversò nelle strade, culminando in un addio collettivo straordinario, il funerale in Piazza del Plebiscito, dove migliaia di persone si strinsero per dirgli addio.
In quella cornice emotiva unica, io e Cecilia Donadio ci ritrovammo nella saletta di montaggio, immersi in due giorni di lavoro frenetico e intenso. La missione era chiara: raccontare Pino Daniele, la sua eredità, il vuoto che lasciava, in 30 minuti di televisione. Ma non si trattava solo di un compito professionale; era un viaggio nel cuore della città, nelle radici della nostra cultura, nelle nostre vite personali, perché tutti noi avevamo un pezzo della nostra storia legato alla sua musica.
La saletta diventò un microcosmo di emozioni. Ogni immagine, ogni parola, ogni nota veniva scelta con cura maniacale, quasi fosse un atto d’amore. Rivedere i vecchi filmati di Pino che suonava, che parlava, che rideva, ci stringeva lo stomaco e ci riempiva gli occhi di lacrime. Ma sapevamo che dovevamo trasformare quel nodo in gola in un racconto che parlasse a tutti, che rispettasse la sua grandezza e il dolore della sua gente.
Il documentario si chiudeva con le facce commosse della gente a Piazza del Plebiscito durante il suo funerale. Quel momento, fissato nel montaggio, ci ha trovati in silenzio: sapevamo che racchiudeva tutto. Quando finalmente il lavoro era completo, abbiamo riguardato il servizio dall’inizio alla fine. Noi, che dovevamo essere i narratori, eravamo anche spettatori del nostro stesso dolore.
Era come se Napoli avesse perso un fratello, ma, nello stesso tempo, si fosse riscoperta comunità. E mentre il nostro servizio andava in onda, sapevo che avevamo fatto la nostra parte per raccontare quel momento irripetibile. Oggi, a dieci anni di distanza, quel ricordo è ancora vivido: due giorni di lavoro forsennato, di emozioni condivise, di professionalità e cuore. Un piccolo omaggio a un gigante, che resterà sempre parte della nostra anima.