Stasera, su consiglio del mio amico Alessandro di Liegro, ho fatto una straordinaria scoperta: Vittorio Camardese. Questo radiologo, negli anni ’60, si dedicava anche alla chitarra, sperimentando una tecnica che sarebbe diventata popolare tra i chitarristi rock solo qualche anno dopo.
Il tapping, erroneamente attribuito comunemente a Eddie Van Halen negli anni ’70, ha in realtà radici profonde che risalgono agli anni ’30, quando il polistrumentista Roy Smeck lo utilizzò su un ukulele in una scena del film “Club House Party”. La tecnica si sviluppò ulteriormente negli anni ’40 grazie a Harry DeArmond, il primo a combinare con precisione i movimenti delle due mani.

Un noto esempio di tapping risale agli anni ’60 in Italia, firmato da Vittorio Camardese, nato nel 1929 a Potenza e radiologo presso l’Ospedale San Filippo di Roma. Autodidatta, Camardese perfezionò la tecnica negli anni ’60 e si esibì con maestria in un mambo e un jazz sofisticato nel programma televisivo “Chitarra Amore Mio” nel 1965. Nonostante la sua straordinaria abilità, la fama di Camardese rimase limitata a causa della sua natura schiva e modesta.

Camardese, che aveva paura di prendere la chitarra elettrica per timore di una scossa, declinò inviti negli Stati Uniti e rifiutò di registrare dischi, convinto che la registrazione su nastro avrebbe cancellato le peculiarità del suo stile. Viveva nell’ombra fino alla sua morte nel 2010, ma la sua tecnica chitarristica è ora universalmente riconosciuta come uno dei migliori esempi di tapping, anticipando l’acclamato Eddie Van Halen.