Mi hanno insegnato ad avere pazienza.
A non disturbare il potere mentre esercita se stesso.
A non guardarlo troppo negli occhi, a lasciarlo fare.
Mi hanno insegnato a chiamare normalità il sopruso,
a considerare inevitabile l’ingiustizia,
a convivere con la stortura, purché ben vestita.

Mi hanno insegnato che il potere ha le sue forme,
i suoi codici, i suoi rituali.
Che non va sfidato, ma semmai interpretato.
Che bisogna imparare a starci dentro.
Col silenzio giusto, l’inchino calibrato, il tono neutro.

Mi hanno insegnato — senza dirmelo — a non vedere.
A distogliere lo sguardo da quella piramide
che si staglia in ogni ufficio, in ogni istituzione,
in ogni pezzo di mondo dove c’è qualcuno che comanda
e molti che si stringono per restare sotto.

Una piramide perfetta nella sua gerarchia:
in cima pochi, pochissimi,
che decidono cosa vale e cosa no.
Che dall’alto gettano gli scarti,
gli avanzi, le parole riciclate,
e chi sta sotto, affamato di riconoscimento, li raccoglie
li mastica, li veste da opportunità.

Ai piani intermedi si lotta per salire di un gradino,
per avere un ufficio con più luce,
per poter a propria volta calare qualcosa —
un ordine, un favore, una minaccia sottile.
Ciascuno spera di non essere l’ultimo.

E poi c’è la base.
La più larga, la più affollata, la più invisibile.
Lì ci sono quelli che hanno fame vera:
di giustizia, di ascolto, di possibilità.
Ma anche loro, spesso, si arrampicano.
Non per ribaltare la piramide.
Per scalarla.
Perché il miraggio è forte: salire, salire,
fino a scomparire nella cima.

E mentre salgono,
ostentano la propria posizione provvisoria
come se fosse una vittoria,
un’affermazione,
non un prestito da restituire con interessi.

Io quel gioco lo vedo.
E non so ancora se ho imparato a starci dentro
o se continuo — con ostinazione —
a cercare un modo per camminare fuori

Il video che sto per riproporre l’avete già visto.
Magari vi è passato davanti distrattamente, magari l’avete apprezzato per la sua estetica, o per l’atmosfera.
Ma oggi sento il bisogno di raccontarvelo davvero.
Di spiegarne l’essenza.

Quello che vedete è girato su uno dei tanti tetti di Napoli
(vi dirò quale quando andrò in pensione 😄).
Un luogo non autorizzato, nel senso più creativo del termine.
Quel tetto era il nostro manifesto non scritto.
Una citazione silenziosa di gesti più grandi:
il live dei Beatles sulla Apple, gli U2 su un tetto a Los Angeles.

Lì c’era l’idea che la musica potesse uscire dalle stanze, prendere quota, fondersi col paesaggio.
Noi facevamo lo stesso, nel nostro piccolo.
Con una videocamera.
E un’intuizione.

Io e Cecilia.

Quel gesto aveva qualcosa di carbonaro, di brigantesco.
Un atto poetico travestito da marachella.
Come se stessimo cercando di liberare uno spirito prigioniero, proprio nel cuore di quel luogo.

Nel video Cecilia prende in mano una chitarra vera.
Non per suonarla, ma per evocare.
Interpreta Jimi Hendrix in Wait Until Tomorrow con un gesto lieve ma pieno di senso.

Quel frammento parla di libertà creativa.
Parla anche di un altro tempo: gli anni Settanta, che ci hanno formati senza che ce ne accorgessimo.
Che ritornano nei colori, nei riferimenti, nei feticci minimi che portavamo con noi senza esibirli.

E poi c’è l’aspetto più importante.
Sapevamo che non ci sarebbe stato niente in cambio.
Nessuna ribalta, nessun premio, nessuna “visibilità” da conquistare.

E per questo, con un sorriso tra noi, chiamavamo tutto questo:
Useless Mission.

Una missione inutile, sì.
Ma nel senso più vero, più puro.
Utile solo a chi la vive.

L’ultima puntata di Agorà Weekend è andata in onda.
E come si conviene a ogni fine stagione che si rispetti, c’è stato un brindisi, un aperitivo, le foto di rito. Questa volta a Santa Lucia, davanti a un mare calmo e un’aria da fine di scuola.

Io, in realtà, mi ci sono ritrovato un po’ per caso.
Accompagnavo Luca De Risi — come spesso succede nella vita: uno dice “ti va di venire?”, e tu dici “ma sì, dai”.
E così, senza grandi programmi, mi sono trovato in mezzo a una festa che sembrava fatta apposta per ricordarmi perché questo lavoro, nonostante tutto, riesce ancora a sorprendermi.

Ho scelto il pomeriggio, lo ammetto.
Perché le albe non le reggo più.
Le ho onorate per anni, con dedizione e caffè nero. Ma ora, se devo vivere un momento bello, preferisco farlo col sole già alto e senza la compagnia delle occhiaie.


Da via Marconi a via delle sfogliatelle

Seguo Agorà Weekend dal 2021, dai tempi in cui la sveglia suonava prima del gallo.
Non è un modo di dire: le 5.30 a via Marconi sono un’esperienza mistica.
Nel 2024 ho avuto un’illuminazione: preparare tutto il materiale il giorno prima.
Un gesto semplice che, nel mio piccolo, segna l’evoluzione della specie.

Nel frattempo, sono nate anche amicizie fraterne, di quelle che sopravvivono a rendering eterni e code d’esportazione.
I miei complici fissi? Luca e Luigi.

Con Luca, si parte dai massimi sistemi e si finisce a parlare di sentimenti e viaggi interiori. È autore del libro “D’amore non so morire” e, quando capita, anche del mio disordine emotivo.
Con Luigi, invece, è sempre un po’ Così parlò Bellavista: ogni battuta sembra un estratto teatrale, e lo sfottò è dietro l’angolo.
Insieme siamo un trio comico involontario. Ma funzioniamo, e pure bene.


L’arte della sfogliatella

Li ho anche iniziati — con risultati alterni — alla sacra arte della sfogliatella.
Abbiamo esplorato tutte le pasticcerie nei dintorni della Rai, assegnato voti, creato classifiche. Una sorta di Guida Michelin del centro di Napoli, versione postproduzione.


Sara: freschezza e forza

E poi c’è Sara.
Intelligenza viva, freschezza contagiosa, e uno sguardo che illumina la scena.
Ha portato un ritmo nuovo a Agorà Weekend, uno stile fatto di misura e sostanza.
La seguo, la stimo, e ogni volta penso: ecco come si fa servizio pubblico con garbo e intelligenza.


Amedeo e il tempo che resta

Un pensiero speciale va ad Amedeo Gianfrotta, storico regista della trasmissione, che ci ha lasciati da poco.
Il suo sguardo era discreto ma sempre presente, la sua umanità un punto fermo.
Ci manca, e non solo per ciò che faceva. Ci manca per come lo faceva.


Una squadra fatta di gente vera

L’edizione 2024/2025 è stata diretta da Ilaria Savinelli, con precisione, calma e eleganza. Una regia che sa farsi sentire anche quando resta in silenzio.
In postproduzione, il nostro piccolo esercito invisibile:
Roberto De Angelis, Carmine Santelia, Simona Belliazzi, Rino Formisano… e io, Felice Iovino — o FX, per chi bazzica tra gli effetti e le scadenze.

Montiamo, smontiamo, rincorriamo il tempo e lo rimettiamo in ordine. O almeno, ci proviamo ogni fine settimana.


Quando le cose belle finiscono (ma non troppo)

È finita un’altra stagione.
Ma si sa: le cose belle non finiscono davvero. Si archiviano, si raccontano, e poi — con un po’ di fortuna e una buona sfogliatella — si ritrovano.

Qualche settimana fa, con Barbara Napolitano, ho avuto l’onore di lavorare al concerto tributo per Pino Daniele in Piazza del Gesù. Io ero dietro le quinte, a cavallo tra passato e presente, con la videocamera puntata sulla memoria, e l’intelligenza artificiale tra le dita come uno scalpello digitale. Montavo, rielaboravo, cercavo l’anima di un tempo che non c’è più. O meglio: che ogni tanto torna.

Tra le tante immagini che ho provato a ricreare, ce n’è una che mi ha toccato in modo profondo. Non era perfetta. Era, anzi, uno scarto. Un errore generato dall’AI che non riusciva a restituire un volto fedele a Pino Daniele. Ogni volta ci girava intorno, gli assomigliava appena, ma non lo coglieva mai davvero. Come se Pino non volesse essere copiato, come se la sua essenza restasse, giustamente, inafferrabile.

Eppure, da quello “scarto”, è nato qualcosa di prezioso.

Una scena: Roma, 1976.
Pino Daniele, Dorina Giangrande e Claudio Poggi escono dall’Hotel Romano.
Stanno andando in studio. A registrare il primo disco.
Terra Mia.


Quel giorno, prima della storia

Rivedere, anche solo in forma generata, quell’istante, mi ha colpito come uno schiaffo dolce.
È il momento in cui prende forma la storia, ma nessuno dei tre lo sa.
È un giorno qualsiasi.
È tutto ancora possibile.
È ancora tutto fragile, ingenuo, puro.

Pino in quella foto non è ancora Pino Daniele. Non è ancora il cantautore che troverò qualche anno dopo in tutte le case, nei salotti intellettuali, nelle auto, nei mangianastri portatili degli amici.
È un ragazzo. Un ragazzo con una chitarra, qualche idea in testa e un dialetto che si appresta a diventare lingua poetica.

E accanto a lui c’è Dorina. Dorina Giangrande.


Dorina: voce, compagna, madre, musa

Nata nel cuore di Napoli, Dorina non era solo la moglie di Pino, ma una delle sue prime, fondamentali collaboratrici. La sua voce — calda, profonda, piena — compare nei cori di Terra Mia, insieme a quelli di Donatella Brighel. È una voce che abbraccia, che sostiene, che accompagna.
Dorina era lì quando tutto cominciava.
E continuerà ad essere presente nella musica di Pino anche dopo: nel 1991, ad esempio, nel disco Un uomo in blues.

Con Pino ha avuto due figli, Alessandro e Cristina. Cristina, in particolare, è stata ispirazione per due canzoni che ancora oggi commuovono: “Putesse essere allero” e “Ninnannannaninnanoè”. Brani che raccontano la tenerezza, la vulnerabilità, l’amore puro.

Il loro matrimonio finì negli anni ’90, ma Dorina restò una figura centrale nella vita e nel mondo sonoro di Pino. Un ponte tra la vita personale e quella artistica. Un filo, mai spezzato, tra il cuore e la musica.


Guardando oggi quella foto

Guardare oggi quella foto, anche se solo evocata digitalmente, è come entrare in un sogno al rallentatore.
Vedo Pino che sorride, timido.
Claudio Poggi che cammina accanto a lui, inconsapevole di stare dando forma a un capolavoro.
E Dorina, lì vicino, con quello sguardo che sembra sapere già tutto, anche se non dice niente.

Quella immagine, per me, ha uno spessore altissimo.
Non è nostalgia. È consapevolezza.
È il valore di un momento prima che il mondo cambi.
Prima che la musica diventi mito.
Prima che la voce diventi memoria.

Nel video che accompagna questo post, ho cercato di restituire quell’attimo. Non l’ho trovato con precisione, e forse non era nemmeno necessario. Perché certe presenze — come quella di Pino, come certe vibrazioni nella voce di Dorina — non si possono imitare. Non si possono sintetizzare. Solo evocare.

E ricordare.
Sempre.

di FXiovino

C’è qualcosa di magico nei live. Non solo nell’energia che si crea tra musicisti, ma nei suoni non filtrati, negli errori piccoli che diventano carattere, nei respiri che restano impressi tra un colpo di charleston e un accordo aperto.
E così, mentre frugavo nel mio personale archivio di hard disk pieni come valigie prima di una tournée, è saltata fuori una seconda registrazione live di Elisabetta Serio, datata 2019.

Stesso periodo, stessa atmosfera, stessa bellezza. Ma con un piccolo grande dettaglio: all’epoca l’avevo trattata con Reason e — per farla breve — non rendeva giustizia alla musica. Ora, grazie a Logic e a un mix meno affannato e più attento, ho potuto risentirla come merita.

Il suono vivo del live

Questa registrazione non è perfetta. E meno male.
È viva, è vera, è piena di quello che solo un’esecuzione dal vivo può contenere: la vicinanza dei microfoni, qualche rientro tra strumenti, un’interazione non detta ma chiarissima tra i musicisti.

E al centro c’è lei, Elisabetta Serio, che con il suo tocco riesce a tenere tutto insieme come se il pianoforte fosse una conversazione con chi ascolta.
Ho usato un po’ di plugin per liberare lo spazio tra i suoni, per farli dialogare meglio. Ho tolto più che aggiunto.
E alla fine, ho avuto quella sensazione rara: il brano non solo funziona, ma respira.

Pareri che contano

In mezzo a questo processo di “ascolto rinnovato”, ho avuto il piacere di far sentire il pezzo anche a Cecilia Donadio, che con la sua consueta delicatezza ha saputo cogliere l’anima del brano in pochi secondi.
Quando un orecchio attento ti conferma ciò che sentivi solo di pancia, capisci che hai fatto bene a riprendere in mano quella traccia.

Non è nostalgia, è necessità

Riaprire vecchie registrazioni può sembrare un gesto nostalgico. Ma a volte è proprio una necessità.
La musica — quella vera — non invecchia. Semplicemente aspetta il momento giusto per mostrarsi nella luce migliore.

E ora, finalmente, questa seconda traccia è pronta a farsi ascoltare.

È online, sul mio canale.
Live, sì. Con tutti i suoi piccoli limiti.
Ma dentro ci sono momenti veri. E quelli non passano mai di moda.

Non butto via niente.
Zero.
Nemmeno quel file audio intitolato “mix_definitivo_finaleULTIMO_VERO.wav” (spoiler: era il primo tentativo).

Faccio questo mestiere da così tanto tempo che ormai quando apro un hard disk da 300 mega sento odore di pizza al taglio e modem 56k. Ho roba che manco l’Internet Archive. Anni di registrazioni, prove, demo, suoni, silenzi, sbuffi, loop infiniti e file dal nome incomprensibile tipo “finalissima_mixVERArevision3_bisFINALE.mov”.

Qualche giorno fa, mentre rovistavo tra questi cimeli digitali, mi è saltato fuori un live del 3 giugno 2019. Una roba che all’epoca avevo postprodotto con Reason. Ma il risultato… meh. Sai quando fai una pasta con amore ma ti dimentichi il sale? Ecco. Così, spinto da quel misto di malinconia e masochismo creativo, ho tirato tutto su in Logic — plugin vari, qualche magia per isolare suoni troppo amichevoli tra loro (tipo la batteria che voleva abbracciare il piano) — ed è venuto fuori qualcosa che finalmente mi suona bene.

Elisabetta Serio, non solo Pino Daniele (e già sarebbe tanto)

In quel live c’è lei: Elisabetta Serio. Ora, lo so che molti la ricordano solo come la pianista di Pino Daniele. Ed è vero, ma è un po’ come dire che la Nutella è “quella crema che si spalma sul pane”. Elisabetta è una musicista fine, potente, con un tocco che sembra conoscere i tuoi pensieri prima ancora che li pensi.

Nel 2019 era venuta a suonare e a parlare di Sedici, un disco bellissimo, intimo e sofisticato. Qualche mese fa ci siamo rivisti, a tavola ovviamente — perché certi rapporti si rinnovano solo davanti a un piatto serio. Abbiamo parlato di musica, di vita, e mi ha fatto il regalo più bello: ha ascoltato alcune mie composizioni.

Quando ha sentito “Je song o popolo”, ha alzato lo sguardo, aveva gli occhi lucidi. Mi ha detto che era commossa. E lì ho pensato: o è una grandissima attrice (spoiler: non lo è), oppure davvero la musica, se è onesta, arriva.

Una piccola cosa da nulla, che però mi somiglia

La registrazione non è perfetta, eh. È acustica, live, con microfoni ovunque, tipo cena di Natale coi parenti: tutti parlano, tutti vogliono essere ascoltati. Ma ora ha un suono più pulito, più vero. E dentro ci sento quelle giornate di creatività quasi ostinata, quelle in cui il mondo può anche esplodere, ma tu devi finire quel mix.

La musica, per me, è sempre stata così: non lineare, non perfetta, ma sempre piena. E in quella pienezza ogni tanto trovo anche me stesso.

Se ti va, passa dal mio canale YouTube. Non troverai effetti speciali, ma storie vere che si muovono tra una nota sbagliata e un’emozione giusta.

A presto,
Felice Iovino (FXiovino)
collezionista di hard disk e momenti irripetibili