Ci sono persone che ti sembra di conoscere da sempre, anche se non le hai mai incontrate.

Con Stefano Sarcinelli è stato proprio così. Lo seguo da anni – da decenni, in realtà – in tutte le trasmissioni comiche a cui ha partecipato, scritto, dato voce e anima. Macao, Convenscion, Scirocco, L’ottavo nano, Bulldozer… per citarne solo alcune.

Stefano Sarcinelli ha avuto un percorso importante anche nel cinema, a partire da Uomo d’acqua dolce (1996), esordio alla regia di Antonio Albanese. Da lì in poi, ha preso parte a film come La fame e la sete, Controvento, È già ieri, Si può fare, Benvenuti al Nord e tanti altri. Sempre con quel suo tocco personale, mai invadente, eppure sempre riconoscibile. Un volto che non si dimentica, ma soprattutto, una presenza che lascia il segno.

Poi, un giorno qualsiasi, al bar della Rai, arriva lui. Gentile, pacato, sorridente. Mi offre un caffè – ancora prima di presentarci. Un gesto semplice, quasi d’altri tempi.

Attore, autore, regista. Ma soprattutto, uno di quelli che fanno ridere senza mai dover urlare. Che fanno pensare, mentre strappano un sorriso.

Ora è tra i protagonisti di Audiscion , in onda ogni lunedì alle 21:30 su Rai 2, ed è bello vederlo ancora lì, coerente, fedele al suo stile. Con la stessa ironia intelligente, lo stesso passo discreto di chi sa cosa sta facendo e lo fa bene da tanto tempo.

Abbiamo scattato qualche foto insieme. E sì, sembrava una gag: lui incastrato dietro il vetro con l’insegna “Rai” sulla testa, io dall’altra parte a immortalare il momento. Ma niente era preparato. Era tutto naturale. Come le cose belle.

Grazie Stefano per quel caffè, per la chiacchierata, e per il mestiere che porti avanti con la leggerezza di chi sa, davvero, far ridere con stile.

📸 MyRaiFriends, episodio GINO FASTIDIO e la posa del supereroe stanco (ma coerente)”.

A Gino gli avevo chiesto una posa da supereroe… o almeno da sex symbol alternativo.

Lui mi ha guardato, ha sorriso con quell’aria da filosofo sottovalutato, e si è sistemato comodo nella sua iconica postura da debosciato consapevole.

Zero effetti speciali. Solo Gino, fedele a se stesso, ai suoi tempi interiori e alla sua poetica da amico delle piante (tutte, ma una in particolare).

In questa foto c’è tutta la sua essenza: un po’ sciamano, un po’ comico zen, sempre con lo sguardo di chi ne sa più di quanto dica.

Ci sono colleghi con cui condividi ogni giornata di lavoro, scambi due chiacchiere davanti al caffè, magari un sorriso in corridoio. Eppure, solo dopo un po’ ti rendi conto del percorso che hanno alle spalle.

È successo con Lilly Viccaro Theo. Sempre gentile, riservata, mai una parola fuori posto. Non ama i riflettori, preferisce il lavoro silenzioso e ben fatto. E così, senza troppo clamore, scopri che ha lavorato per anni a “Chi l’ha visto?”, che ha vinto un Premio Giancarlo Siani per una tesi sugli anni di piombo, e che ha scritto, insieme a Massimiliano Griner, un libro intenso come Contropotere. La notte della Repubblica e i giornalisti che hanno cercato di fare luce, pubblicato da Nutrimenti.

Ora è nella redazione della TGR Campania, con quello stile tutto suo: attento, rigoroso, lontano da ogni protagonismo. E la cosa che mi ha colpito di più è proprio questa: il modo in cui il valore, quello vero, può passarti accanto senza fare rumore.

Mi ha fatto piacere scoprirlo, e mi sembrava giusto scriverlo.

Raccontare la schiavitù con l’intelligenza artificiale: un viaggio da Sumer ai Malê

Quando ho iniziato a collaborare con la trasmissione Sapiens – Un solo pianeta, condotta da Mario Tozzi su Rai3, sapevo che mi sarei confrontato con temi affascinanti e complessi. Ma non immaginavo che uno dei percorsi più intensi e toccanti sarebbe stato quello che mi ha portato a visualizzare – con l’aiuto dell’intelligenza artificiale – la storia della schiavitù, dalle sue origini in Mesopotamia fino alla rivolta dei Malê in Brasile, nel 1835.

In questo lavoro, non si tratta solo di “illustrare” episodi storici. Si tratta di evocare volti, atmosfere, silenzi. Di dare forma e spazio a ciò che raramente ha avuto diritto a essere rappresentato. E forse, proprio per questo, ha bisogno di essere raccontato con cura.

Il primo schiavo: Mesopotamia, 2200 a.C.

Tutto è cominciato da lì: da una scena in una civiltà che già conosceva la schiavitù come istituzione. Nell’antica Sumer, nel cuore pulsante della Mesopotamia, gli schiavi erano spesso prigionieri di guerra o individui indebitati, impiegati nei campi, nei templi, nei cantieri delle ziggurat.

Per Sapiens, ho ricostruito con l’AI una di queste scene: un giovane ʿabd che trasporta argilla sotto il sole, il volto chino, la postura stanca ma dignitosa. Ogni dettaglio è stato costruito attraverso prompt minuziosi, perché ogni pixel doveva portare rispetto. Nessuna spettacolarizzazione, solo silenzio, polvere e umanità.

Bahia, 1835: la rivolta dei Malê

Molti secoli dopo, dall’altra parte del mondo, un’altra scena prende vita: quella della rivolta dei Malê, a Salvador de Bahia. Qui, nel cuore del Brasile coloniale, un gruppo di schiavi musulmani – molti dei quali di etnia Yoruba e Hausa – si organizza per reclamare la propria libertà. Erano alfabetizzati, strutturati, determinati. Volevano una cosa semplice e immensa: non essere più proprietà di nessuno.

Con l’AI ho cercato di dare un volto anche a loro: uomini in abiti bianchi, con il Corano nascosto nelle pieghe della tunica, fiaccole accese, uno sguardo che racconta il coraggio e il rischio. Non eroi mitologici, ma persone reali che hanno lasciato un segno.

Un lavoro che tocca

Questo lavoro non è stato solo un esercizio tecnico. È stato un viaggio emotivo. Ho usato l’intelligenza artificiale non per sostituire la creatività umana, ma per servirla: per aiutare lo spettatore a immaginare ciò che non può essere filmato, per colmare le lacune della memoria collettiva.

È come se, scena dopo scena, l’AI mi aiutasse a sollevare una cortina di polvere dalla storia e a far emergere i dettagli che spesso restano fuori dai libri: un’espressione, una postura, un gesto.
Questa galleria raccoglie alcune immagini scelte tra le centinaia di scarti che si sono accumulati nel corso della lavorazione.

Mi porto dietro molte immagini. Alcune le abbiamo usate. Altre forse non le vedrà nessuno, ma sono rimaste con me. Perché, quando ti metti a raccontare chi non ha potuto raccontarsi, un po’ ti trasformi anche tu.

Sabina, troppo bella per la scena. Ma non per restare con me.

Sabina è uscita da una sequenza di prompt per una puntata di Sapiens. Cercavo un volto che potesse rappresentare una donna nella Bahia del XIX secolo, una figura che potesse camminare tra la schiavitù e la libertà, tra dolore e dignità. E lei è apparsa così, senza preavviso: fiera, elegante, intensa. Perfetta.

Anzi, troppo perfetta.

Lei è Sabina, anche se l’AI non dà nomi, perché un volto così merita un’identità. Aveva l’anima di una storia che non si poteva raccontare solo in una scena. Ma, paradossalmente, è stata scartata. Troppo bella, troppo magnetica. Distoglieva l’attenzione, dicevano. Una presenza che rischiava di trasformare un documento storico in un sogno romantico.

E allora ho fatto quello che fanno gli sceneggiatori sentimentali: l’ho salvata. Non per lo schermo, ma per me.

Sabina non andrà in onda. Ma è rimasta nella mia cartella, nella mia mente, e forse un po’ anche nel mio cuore. Perché chi lavora con le immagini sa che, a volte, una figura generata in digitale può sembrarti più viva di molte persone reali. Per un istante.

Sabina non è mai esistita. Ma anche questa, forse, è solo un’opinione.


🖥️ Sapiens – Un solo pianeta va in onda su Rai3 e in streaming su RaiPlay.
Per chi è curioso di vedere con gli occhi, ma anche con il cuore.

C’è un momento, ogni tanto, in cui mi siedo davanti allo strumento senza un’idea precisa, senza uno spartito, senza uno schema. Solo io, il suono, e lo spazio vuoto da riempire. Empathy è nata così.

L’improvvisazione è questo: l’attimo in cui smetti di pensare e inizi a sentire. È lì che la musica diventa linguaggio dell’anima, che prende forma senza preavviso, senza filtri, senza trucco. Non c’è niente di preordinato, nessuna architettura razionale. Solo la sincerità del momento che si fa nota, respiro, ritmo.

Questa composizione è una piccola confessione in musica. Non nasce per stupire, non segue una logica commerciale. È un gesto intimo, quasi una meditazione, che ho deciso di rendere pubblico perché credo che la verità – anche quando è fragile, incerta, magari imperfetta – meriti sempre uno spazio per essere ascoltata.

In un mondo in cui tutto è pensato, progettato, ripulito, credo ancora nel valore dell’istinto. Nell’arte che nasce mentre accade. Nella musica come specchio di chi siamo, senza maschere.

Ascoltatela se vi va. E se vi arriva qualcosa, anche solo un respiro, sarà valsa la pena condividerla.

🎶 Empathy – Ascolta su YouTube