Produzioni Tv
E’ fragile come un bambino
sempre in pericolo, sempre sotto attacco,
perché è più facile
imporre qualsiasi cosa con la forza e la violenza
che stare lì a spiegare, a far capire a tutti,
persino le cose più elementari.
Fragile perché tutti siamo in vendita,
e spesso viene usata come merce di scambio,
perché è fatta di sottili equilibri,
che si spezzano al primo soffio di odio.
Ci illude di scegliere,
ma spesso muore ogni volta
che ci giriamo dall’altra parte,
ogni volta che il silenzio pesa più della coscienza.
E mentre applaudiamo gli slogan del nulla,
lei si consuma in un angolo,
con gli occhi sbarrati e le mani legate,
aspettando che qualcuno abbia ancora il coraggio
di chiamarla per nome: DEMOCRAZIA!
Il video che sto per riproporre l’avete già visto.
Magari vi è passato davanti distrattamente, magari l’avete apprezzato per la sua estetica, o per l’atmosfera.
Ma oggi sento il bisogno di raccontarvelo davvero.
Di spiegarne l’essenza.
Quello che vedete è girato su uno dei tanti tetti di Napoli
(vi dirò quale quando andrò in pensione 😄).
Un luogo non autorizzato, nel senso più creativo del termine.
Quel tetto era il nostro manifesto non scritto.
Una citazione silenziosa di gesti più grandi:
il live dei Beatles sulla Apple, gli U2 su un tetto a Los Angeles.
Lì c’era l’idea che la musica potesse uscire dalle stanze, prendere quota, fondersi col paesaggio.
Noi facevamo lo stesso, nel nostro piccolo.
Con una videocamera.
E un’intuizione.
Io e Cecilia.
Quel gesto aveva qualcosa di carbonaro, di brigantesco.
Un atto poetico travestito da marachella.
Come se stessimo cercando di liberare uno spirito prigioniero, proprio nel cuore di quel luogo.
Nel video Cecilia prende in mano una chitarra vera.
Non per suonarla, ma per evocare.
Interpreta Jimi Hendrix in Wait Until Tomorrow con un gesto lieve ma pieno di senso.
Quel frammento parla di libertà creativa.
Parla anche di un altro tempo: gli anni Settanta, che ci hanno formati senza che ce ne accorgessimo.
Che ritornano nei colori, nei riferimenti, nei feticci minimi che portavamo con noi senza esibirli.
E poi c’è l’aspetto più importante.
Sapevamo che non ci sarebbe stato niente in cambio.
Nessuna ribalta, nessun premio, nessuna “visibilità” da conquistare.
E per questo, con un sorriso tra noi, chiamavamo tutto questo:
Useless Mission.
Una missione inutile, sì.
Ma nel senso più vero, più puro.
Utile solo a chi la vive.
L’ultima puntata di Agorà Weekend è andata in onda.
E come si conviene a ogni fine stagione che si rispetti, c’è stato un brindisi, un aperitivo, le foto di rito. Questa volta a Santa Lucia, davanti a un mare calmo e un’aria da fine di scuola.
Io, in realtà, mi ci sono ritrovato un po’ per caso.
Accompagnavo Luca De Risi — come spesso succede nella vita: uno dice “ti va di venire?”, e tu dici “ma sì, dai”.
E così, senza grandi programmi, mi sono trovato in mezzo a una festa che sembrava fatta apposta per ricordarmi perché questo lavoro, nonostante tutto, riesce ancora a sorprendermi.
Ho scelto il pomeriggio, lo ammetto.
Perché le albe non le reggo più.
Le ho onorate per anni, con dedizione e caffè nero. Ma ora, se devo vivere un momento bello, preferisco farlo col sole già alto e senza la compagnia delle occhiaie.
Seguo Agorà Weekend dal 2021, dai tempi in cui la sveglia suonava prima del gallo.
Non è un modo di dire: le 5.30 a via Marconi sono un’esperienza mistica.
Nel 2024 ho avuto un’illuminazione: preparare tutto il materiale il giorno prima.
Un gesto semplice che, nel mio piccolo, segna l’evoluzione della specie.
Nel frattempo, sono nate anche amicizie fraterne, di quelle che sopravvivono a rendering eterni e code d’esportazione.
I miei complici fissi? Luca e Luigi.
Con Luca, si parte dai massimi sistemi e si finisce a parlare di sentimenti e viaggi interiori. È autore del libro “D’amore non so morire” e, quando capita, anche del mio disordine emotivo.
Con Luigi, invece, è sempre un po’ Così parlò Bellavista: ogni battuta sembra un estratto teatrale, e lo sfottò è dietro l’angolo.
Insieme siamo un trio comico involontario. Ma funzioniamo, e pure bene.
Li ho anche iniziati — con risultati alterni — alla sacra arte della sfogliatella.
Abbiamo esplorato tutte le pasticcerie nei dintorni della Rai, assegnato voti, creato classifiche. Una sorta di Guida Michelin del centro di Napoli, versione postproduzione.
E poi c’è Sara.
Intelligenza viva, freschezza contagiosa, e uno sguardo che illumina la scena.
Ha portato un ritmo nuovo a Agorà Weekend, uno stile fatto di misura e sostanza.
La seguo, la stimo, e ogni volta penso: ecco come si fa servizio pubblico con garbo e intelligenza.
Un pensiero speciale va ad Amedeo Gianfrotta, storico regista della trasmissione, che ci ha lasciati da poco.
Il suo sguardo era discreto ma sempre presente, la sua umanità un punto fermo.
Ci manca, e non solo per ciò che faceva. Ci manca per come lo faceva.
L’edizione 2024/2025 è stata diretta da Ilaria Savinelli, con precisione, calma e eleganza. Una regia che sa farsi sentire anche quando resta in silenzio.
In postproduzione, il nostro piccolo esercito invisibile:
Roberto De Angelis, Carmine Santelia, Simona Belliazzi, Rino Formisano… e io, Felice Iovino — o FX, per chi bazzica tra gli effetti e le scadenze.
Montiamo, smontiamo, rincorriamo il tempo e lo rimettiamo in ordine. O almeno, ci proviamo ogni fine settimana.
È finita un’altra stagione.
Ma si sa: le cose belle non finiscono davvero. Si archiviano, si raccontano, e poi — con un po’ di fortuna e una buona sfogliatella — si ritrovano.
Ci sono persone che ti sembra di conoscere da sempre, anche se non le hai mai incontrate.
Con Stefano Sarcinelli è stato proprio così. Lo seguo da anni – da decenni, in realtà – in tutte le trasmissioni comiche a cui ha partecipato, scritto, dato voce e anima. Macao, Convenscion, Scirocco, L’ottavo nano, Bulldozer… per citarne solo alcune.
Stefano Sarcinelli ha avuto un percorso importante anche nel cinema, a partire da Uomo d’acqua dolce (1996), esordio alla regia di Antonio Albanese. Da lì in poi, ha preso parte a film come La fame e la sete, Controvento, È già ieri, Si può fare, Benvenuti al Nord e tanti altri. Sempre con quel suo tocco personale, mai invadente, eppure sempre riconoscibile. Un volto che non si dimentica, ma soprattutto, una presenza che lascia il segno.
Poi, un giorno qualsiasi, al bar della Rai, arriva lui. Gentile, pacato, sorridente. Mi offre un caffè – ancora prima di presentarci. Un gesto semplice, quasi d’altri tempi.
Attore, autore, regista. Ma soprattutto, uno di quelli che fanno ridere senza mai dover urlare. Che fanno pensare, mentre strappano un sorriso.
Ora è tra i protagonisti di Audiscion , in onda ogni lunedì alle 21:30 su Rai 2, ed è bello vederlo ancora lì, coerente, fedele al suo stile. Con la stessa ironia intelligente, lo stesso passo discreto di chi sa cosa sta facendo e lo fa bene da tanto tempo.
Abbiamo scattato qualche foto insieme. E sì, sembrava una gag: lui incastrato dietro il vetro con l’insegna “Rai” sulla testa, io dall’altra parte a immortalare il momento. Ma niente era preparato. Era tutto naturale. Come le cose belle.
Grazie Stefano per quel caffè, per la chiacchierata, e per il mestiere che porti avanti con la leggerezza di chi sa, davvero, far ridere con stile.
Raccontare la schiavitù con l’intelligenza artificiale: un viaggio da Sumer ai Malê
Quando ho iniziato a collaborare con la trasmissione Sapiens – Un solo pianeta, condotta da Mario Tozzi su Rai3, sapevo che mi sarei confrontato con temi affascinanti e complessi. Ma non immaginavo che uno dei percorsi più intensi e toccanti sarebbe stato quello che mi ha portato a visualizzare – con l’aiuto dell’intelligenza artificiale – la storia della schiavitù, dalle sue origini in Mesopotamia fino alla rivolta dei Malê in Brasile, nel 1835.
In questo lavoro, non si tratta solo di “illustrare” episodi storici. Si tratta di evocare volti, atmosfere, silenzi. Di dare forma e spazio a ciò che raramente ha avuto diritto a essere rappresentato. E forse, proprio per questo, ha bisogno di essere raccontato con cura.
Tutto è cominciato da lì: da una scena in una civiltà che già conosceva la schiavitù come istituzione. Nell’antica Sumer, nel cuore pulsante della Mesopotamia, gli schiavi erano spesso prigionieri di guerra o individui indebitati, impiegati nei campi, nei templi, nei cantieri delle ziggurat.
Per Sapiens, ho ricostruito con l’AI una di queste scene: un giovane ʿabd che trasporta argilla sotto il sole, il volto chino, la postura stanca ma dignitosa. Ogni dettaglio è stato costruito attraverso prompt minuziosi, perché ogni pixel doveva portare rispetto. Nessuna spettacolarizzazione, solo silenzio, polvere e umanità.
Molti secoli dopo, dall’altra parte del mondo, un’altra scena prende vita: quella della rivolta dei Malê, a Salvador de Bahia. Qui, nel cuore del Brasile coloniale, un gruppo di schiavi musulmani – molti dei quali di etnia Yoruba e Hausa – si organizza per reclamare la propria libertà. Erano alfabetizzati, strutturati, determinati. Volevano una cosa semplice e immensa: non essere più proprietà di nessuno.
Con l’AI ho cercato di dare un volto anche a loro: uomini in abiti bianchi, con il Corano nascosto nelle pieghe della tunica, fiaccole accese, uno sguardo che racconta il coraggio e il rischio. Non eroi mitologici, ma persone reali che hanno lasciato un segno.
Questo lavoro non è stato solo un esercizio tecnico. È stato un viaggio emotivo. Ho usato l’intelligenza artificiale non per sostituire la creatività umana, ma per servirla: per aiutare lo spettatore a immaginare ciò che non può essere filmato, per colmare le lacune della memoria collettiva.
È come se, scena dopo scena, l’AI mi aiutasse a sollevare una cortina di polvere dalla storia e a far emergere i dettagli che spesso restano fuori dai libri: un’espressione, una postura, un gesto.
Questa galleria raccoglie alcune immagini scelte tra le centinaia di scarti che si sono accumulati nel corso della lavorazione.
Mi porto dietro molte immagini. Alcune le abbiamo usate. Altre forse non le vedrà nessuno, ma sono rimaste con me. Perché, quando ti metti a raccontare chi non ha potuto raccontarsi, un po’ ti trasformi anche tu.
Sabina è uscita da una sequenza di prompt per una puntata di Sapiens. Cercavo un volto che potesse rappresentare una donna nella Bahia del XIX secolo, una figura che potesse camminare tra la schiavitù e la libertà, tra dolore e dignità. E lei è apparsa così, senza preavviso: fiera, elegante, intensa. Perfetta.
Anzi, troppo perfetta.
Lei è Sabina, anche se l’AI non dà nomi, perché un volto così merita un’identità. Aveva l’anima di una storia che non si poteva raccontare solo in una scena. Ma, paradossalmente, è stata scartata. Troppo bella, troppo magnetica. Distoglieva l’attenzione, dicevano. Una presenza che rischiava di trasformare un documento storico in un sogno romantico.
E allora ho fatto quello che fanno gli sceneggiatori sentimentali: l’ho salvata. Non per lo schermo, ma per me.
Sabina non andrà in onda. Ma è rimasta nella mia cartella, nella mia mente, e forse un po’ anche nel mio cuore. Perché chi lavora con le immagini sa che, a volte, una figura generata in digitale può sembrarti più viva di molte persone reali. Per un istante.
Sabina non è mai esistita. Ma anche questa, forse, è solo un’opinione.
🖥️ Sapiens – Un solo pianeta va in onda su Rai3 e in streaming su RaiPlay.
Per chi è curioso di vedere con gli occhi, ma anche con il cuore.